sabato 31 maggio 2008

La Scuola dei Tajapiera



Quella dei Tajapiera fu tra le più antiche Scuole d'arte veneziane. La Mariegola, cioè l'atto costitutivo, risale al 1307.
La Scuola, riunitasi sotto la protezione dei Quattro Santi Coronati, fu ospitata inizialmente presso l'ospedale di San Giovanni Evangelista, dove, in una stanza al pian terreno, messa a disposizione dal Priore, avvenivano le adunanze del Capitolo, cioè del Consiglio dell'associazione, presiedute dal Gastaldo.

Come le altre Scuole Minori, anche quella dei Tajapiera, aveva compiti di mutua assistenza e di controllo sulla qualità del lavoro.
I tajapiera iscritti all'arte erano in varie maniere tutelati. Pare, ad esempio, che quando uno dei Bon morì cadendo dall'impalcatura a S. Giovanni e Paolo, la vedova il giorno dopo già ricevesse la pensione per allevare il figlio e per poterlo poi inserire nella bottega dei Dalle Masegne.

L'arte si divideva in quattro gradi: garzoni, lavoranti, maestri, padroni di officina; questi ultimi erano detti anche paroni de corte, perché le pietre e i lavori più grossi si facevano nei cortili, all'aria aperta.
La prova per diventare maestri consisteva nello scolpire una base attica di colonna, che, una volta disegnata ed eseguita, direttamente senza sagoma, veniva misurata con un modulo di rame.
Nel 1515 la Confraternita si trasferì presso la Chiesa di Sant'Apollinare (Sant'Aponal), dove, grazie all'interessamento di Pietro Lombardo, acquistò un fondo dalla parte del campanile per costruirvi la propria sede: tale costruzione, in calle del campanile, presenta ancora oggi nella parte alta della facciata un bassorilievo con i Quattro Santi Coronati e la scritta MDCLII SCOLA DI TAGIAPIERA.

Di notte per Sant'Aponal si passava solo se si era tagiapiera e scultori e c'era un servizio di ronda per la sorveglianza. Soltanto nel 1723, o nel 1727 secondo il Sagredo, gli scultori si divisero dagli scalpellini.

La sede della Scuola a Sant'Aponal era abbellita da vari dipinti, alcuni dei quali ora conservati presso le Gallerie dell'Accademia: la tavola, che si trovava sull'altare, con i Santi Coronati, di Vincenzo Catena, ed il Polittico di Sant'Ambrogio, di Bartolomeo Vivarini. Vi era inoltre un altare marmoreo con scolpiti, ai due lati, gli strumenti del mestiere.
L'altare si trova ora in custodia presso la Chiesa di San Silvestro nell'ambiente, al primo piano, già sede della Scuola dei Mercanti da vin.

[Silvia Gramigna]

venerdì 30 maggio 2008

Giordano Bruno. Fede, filosofia ed eresia.



Da lui presero poi esempio, soprattutto in Germania e in Inghilterra, vari circoli di giordanisti e taluni cenacoli, più o meno segreti, che dovevano contribuire, in misura determinante, alla formazione del sistema simbolico della Massoneria moderna, comprendente innanzitutto due filoni di cui Giordano Bruno era stato maestro.
Il primo era l'arte della memoria, non già intesa come pura e semplice mnemotecnica, bensì quale branca sapienziale che si appoggia al gioco di analogia delle immagini, affinché l'uomo possa risalire alle idee primordiali, agli "archetipi".
Il secondo filone era la reinterpretazione dell'astrologia, non più chiamata a farsi creatrice di oroscopi, ma rivolta piuttosto a ospitare, nelle sue figurazioni, i molteplici segni de "le virtude e potenze dell'anima". Compiti immani e veramente "magici", nel senso più completo della parola, e che buona parte della Libera Muratoria si affretterà a dimenticare o per un più appagante e generico umanitarismo o scadendo nella più trita pratica occultistica. Ma chiediamoci: come mai, e perché, Giordano Bruno giunse alle formulazioni che dovevano condurlo sul rogo a Campo de' Fiori, a Roma, il 17 febbraio 1600, dopo otto anni di durissima prigionia nelle carceri della Santa Inquisizione? Ricordiamo alcune tappe della sua vita.
Nato a Nola, nel 1548, da famiglia contadina o piccolo-borghese, entrato nell'Ordine Domenicano a soli quattordici anni, consacrato sacerdote nel 1572, addottorato in teologia tre anni più tardi, Giordano Bruno dovette fuggire da Napoli, dove aveva studiato, perché, nel 1576, fu intentato contro di lui un primo processo per eresia, a causa di talune conclusioni a cui era pervenuto con un accanito lavoro di esegesi biblica.
Egli sosteneva, tra l'altro, che Dio come Mente era trascendente la Natura, ma come Intelletto ne era il cuore e la matrice e, in quanto Spirito, si identificava con l'Anima Universale. Concetti piuttosto difficili da accettarsi da parte delle autorità cattoliche dell'epoca, tanto più che il loro autore si appoggiava a essi per avanzare riserve sul culto della Vergine Maria e sul valore religioso dell'Eucarestia, così come veniva amministrata.
Ingiustamente accusato di complicità in un assassinio, Giordano Bruno, deposto l'abito ecclesiastico, dovette fuggire anche da Roma, iniziando così il lungo peregrinare di tutta la sua esistenza, dapprima nell'Italia settentrionale e poi in tutta Europa, ora accolto con tutti gli onori, ora contestato tumultuosamente, come gli accadde a Parigi, dove gruppi di studenti esaltati gli negarono ogni possibilità d'insegnamento, poiché si contrapponeva in tutto e per tutto alla filosofia di Aristotele (384-322 a.C.) e dei suoi seguaci, allora di gran moda. Il fatto non deve sorprendere.
Il pensiero di Giordano Bruno, guardato con critica profana, era ed è un curioso miscuglio di assiomi "progressisti" e "reazionari": egli appoggiava la concezione copernicana del nostro sistema planetario, giungendo a concepire l'universo come un'unità cosmica, infinita per estensione e per il numero di stelle e di pianeti che lo compongono, ma auspicava, altresì, che si rivivificasse il mondo degli dèi egizi, in quanto riteneva si trattasse della prima e più pura formulazione della religione dell'intelletto.
Analogamente, non v'era dubbio, per Bruno, che solamente una fosse la sostanza-base dell'Universo, ma il suo atomismo non era materialistico: la materia era anch'essa manifestazione della vita e doveva, e poteva, suscitare un'esaltazione lirica.
Non stupirà, dunque, che, per il filosofo di Nola, quattro fossero le scienze sacre per eccellenza: l'Amore, l'Arte, la Magia e la "Mathesis divina", ossia la speculazione o calcolo astrale, l'Astrologia, insomma, nella sua più alta accezione. Quattro discipline che potevano condurre all' "Atrium Apollonis", all' "Atrium Minervae o all' "Atrium Veneris", ciascuno dei quali conduceva, a sua volta, a una combinazione ternaria, ora definita come "Mens", "Intellectus" e "Amor", ora, mitologicamente, rappresentata dal triangolo greco-egizio di Bacco, Diana e Hermes Trismegisto.
Notevole l'attività letteraria- filosofica: già nel 1582, a Parigi, pubblicava il "De umbris idearum"; nel 1584, a Londra, il "De l'infinito universo et mondi", "De la causa principio et uno", "Cena de le ceneri", "Spaccio de la bestia trionfante" e, nel 1585, "Degli eroici furori". A Francoforte, tra il 1590 e il 1591, pubblicò i poemetti latini "De triplici minimo et mensura", "De monade numero et figura", "De immenso et infigurabili et innumerabilibus". Poi gli ultimi, terribili anni che lo portarono alla fine, come già sopra in parte anticipato.
Chiamato a Venezia (nel 1591) dal nobile Giovanni Mocenigo, che voleva apprendere l'arte della memoria, fu denunciato dal suo discepolo al tribunale dell'Inquisizione come eretico, per cui venne arrestato e imprigionato (1592).
Durante il processo, Giordano Bruno si dichiarò disposto a fare ammenda; però la Repubblica di Venezia lo consegnò all'Inquisizione di Roma, dove venne sottoposto a nuovo processo.
Dopo otto anni di prigionia, il più grande e audace pensatore del Rinascimento, che non volle abiurare la propria filosofia, ma non tenne neanche un contegno chiaro e netto, venne condannato a morte da papa Clemente VIII (1535-1605; pontefice dal 1592). Il 17 febbraio 1600, in Campo de' Fiori, venne arso sul rogo.

[Mario Leocata in iltempo.it]

Giacomo Casanova



Nacque a Venezia il 2 aprile 1725, quasi certamente frutto della relazione extraconiugale della madre, un’attrice, con il nobile Michele Grimani. Giacomo Casanova fu avviato alla carriera ecclesiastica e nel 1743 prese gli ordini minori ma fu poi cacciato dal seminario; si laureò in Legge e iniziò una vita girovaga, toccando mete in tutta Europa, vivendo di espedienti e cambiando spesso nome (Conte di Farussi, Cavaliere di Seingault, Antonio Pratolini) per sottrarsi alle conseguenza dei suoi atti, molto spesso al limite della legalità.

Fu cabalista, informatore dell’Inquisizione, mago e guaritore, giocatore professionista e abile baro, diplomatico, uomo di teatro e di corte presso Federico il Grande e Caterina II di Russia; seppe, nelle alterne fortune della sua vita, adeguarsi a vivere nel lusso e nell’indigenza, con ladri imbroglioni e prostitute, ma anche con aristocratici e uomini di corte e di cultura.

Fu arcade col nome di Eupolemo Pantaxeno, aderì alla Massoneria; a Venezia fu accusato di ateismo e libertinismo, motivi per cui fu arrestato e senza processo rinchiuso nei Piombi, da cui riuscì a evadere in modo rocambolesco.

Nel 1760 fu a Zurigo dove si monacò ma poi ebbe un ripensamento.

Negli anni successivi visitò Voltaire in Svizzera; venne espulso dalla Polonia a seguito del duello con la pistola contro il generale Braniski, evento che aumentò l’internazionalità della sua fama al negativo.

Per chiedere la grazia di tornare a Venezia scrisse una confutazione della Storia del governo di Venezia di Amelot de la Houssaye e nel 1774 ottenne di tornare nella sua città, ma ne fu poi nuovamente espulso per la sua condotta immorale.

In età ormai avanzata trovò impiego in Boemia presso il castello di Dux come bibliotecario del conte di Waldestein; qui negli ultimi 7 anni della sua vita scrisse l’Histoire de ma vie (Storia della mia vita).

L’opera fu pubblicata in edizione ridotta nel 1825 in Germania; soltanto nel 1965 è stata tradotta in italiano, dopo 3 anni dalla pubblicazione dell’edizione critica del testo e quattrocento edizioni in venti lingue.

Il testo esalta la figura di Casanova come uomo spregiudicato privo dei consueti schemi morali, emblema dell’edonismo erotico e convalida l’immagine di Casanova come precursore del fenomeno rivoluzionario ottocentesco.

Oltre all’autobiografia Casanova scrisse versi, tradusse in ottave una parte dell’Iliade; in prosa ha scritto anche l’Icosameron (romanzo utopico, 1788) e l’Histoire del ma fuite (Storia della mia fuga, 1788) che racconta l’evasione dai Piombi di Venezia.

Morì in Boemia il 4 giugno del 1798.

Così Giacomo Casanova sui misteri della Massoneria:

« Il mistero della massoneria, di fatto, è per sua natura inviolabile. Il massone lo conosce solo per intuizione, non per averlo appreso, in quanto lo scopre a forza di frequentare la loggia, di osservare, di ragionare e dedurre. Quando lo ha appreso, si guarda bene dal far parte della sua scoperta a chicchessia, fosse pure il suo miglior amico massone, perché se costui non è stato capace di penetrare da solo il segreto, non sarà nemmeno capace di profittarne se lo apprenderà da altri. Il segreto rimarrà dunque sempre tale. Ciò che avviene nella loggia deve rimaner segreto, ma chi è così indiscreto e poco scrupoloso da rivelarlo non rivela l'essenziale. Del resto, come potrebbe farlo se non lo conosce? Se poi lo conoscesse, non lo rivelerebbe. »
(Storia della mia vita)

giovedì 29 maggio 2008

Hugo Pratt, o dell'iniziato ironico



Hugo Pratt, il creatore di Corto Maltese, non appartiene solo al novero già ristretto dei disegnatori a fumetti creativi e capaci di elevare il proprio segno grafico e la propria vena narrativa a vertici estetici impensabili per la gran massa dei mestieranti. Pratt incarna invece l’ideale dell’artista, cioè di quell’artigiano artista tanto rispettato e quasi celebrato dagli Enciclopedisti francesi. I Diderot e i D’Alembert, infatti, ammiravano profondamente quegli artigiani, figli di una cultura che coltivava scienza e arte con il medesimo interesse, che univano alle proprie capacità manuali e tecniche il guizzo, l’intuizione metafisica propri dell’arte autentica.

Questo ideale legame con l’artista del Settecento, figura assai legata alle tradizioni iniziatiche del Compagnonaggio e della Massoneria, si realizza compiutamente in Hugo Pratt grazie a un percorso di ricerca che all’arte associa una propria peculiare visione dell’esoterismo: visione strettamente intrecciata alla sua poetica -anzi, perdendo di vista la quale la sua poetica diviene solo parzialmente intelligibile.

Corto Maltese, il personaggio più noto e più importante di Hugo Pratt, è un cercatore, un uomo in perenne inseguimento di un miraggio di ricchezza, ma sulle tracce di leggende antiche e pergamene indecifrabili: se la ricchezza materiale di Corto solo di rado viene incrementata dal rinvenimento degli oggetti mitici ricercati, egli nondimeno mai perde la propria imperturbabilità, in generale pago, a quanto sembra, degli straordinari incontri e delle straordinarie avventure vissute sulla superficie di tutte le terre conosciute. Non a caso Pratt protesta vigorosamente, in un’intervista con Dominique Pettifaux, all’osservazione che i tesori cercati da Corto Maltese sono pur sempre tesori materiali: diverso è in effetti cercare uno smeraldo qualsiasi e diverso cercare la «clavicola di Salomone».

Corto Maltese si trova ad avere a che fare anche con la Massoneria. In Favola di Venezia Corto irrompe, non proprio casualmente, in una loggia massonica in piena riunione e suscita con le proprie parole il dubbio del Maestro Venerabile che egli stesso possa essere a sua volta un massone, poiché gli si rivolge con alcune parole contenute nel Rituale. Ma alle parole «Siete anche voi un libero muratore?» Corto risponde spiritosamente che si accontenterebbe di essere un libero marinaio.
In queste semplici e ironiche parole c’è molto del Pratt iniziato: egli fece il proprio ingresso in Massoneria poco prima della stesura di Favola di Venezia -opera per cui chiese e ottenne la consulenza di altri massoni; tanto che la Prefazione alla prima edizione del fumetto fu scritta dal Maestro Venerabile della Loggia veneziana alla quale Pratt fu iniziato e alla quale rimase a lungo affiliato (Pratt è stato iniziato il 19 novembre 1976 nella loggia Hermes all’Oriente di Venezia della Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi).
Pratt condivide in gran parte gli ideali esoterici massonici, anche se formula (nel fumetto in questione come in una successiva intervista) un’interessante critica all’Istituzione: il massone manca d’ironia, ed è quindi un personaggio per definizione triste. Nella visione di Pratt, lo «scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed edificare templi alla virtù» (questa la formula esplicitamente ricordata nella Favola) è un’attività che può essere incessantemente portata avanti con il sorriso sulle labbra, senza divenire per questo meno impegnata.
L’ironia, peraltro, diviene anche uno strumento poetico per introdurre nel racconto allusioni al mondo esoterico che, se altrimenti presentate, potrebbero appesantire le storie o comunque renderle troppo pretenziose.

Spesso nelle storie di Corto Maltese compaiono riferimenti a tale mondo, introdotti in genere all’apparire di nomi di personaggi clonati da nomi assai noti nella storia dello spirito umano. Così, per esempio, nell’Angelo della finestra d’oriente, il saggio Melchisedec ha ricevuto notizie di Corto Maltese da un sudamericano di nome Steiner e parla del diario di un gesuita di nome Salinas de Loyola. Altrove prendono direttamente parte all’azione personaggi delle religioni e delle leggende più diverse: al Sogno di un mattino di mezzo inverno (il cui nome è già una citazione ironica), partecipano Oberon (che però da shakespeariano Re delle fate si tramuta in fata), Puck (che invece rimane in qualche modo l’esecutore degli ordini di Oberon), Merlino e, nei panni di una spia tedesca, la reincarnazione di Rowena, mentre si allude a Lorelei in ...e di altri Romei e di altre Giuliette il motore dell’azione è rappresentato da uno stregone (africano) di nome Shamaël.

Si direbbe che Hugo Pratt, attraverso Corto, abbia fatto proprio il detto terenziano «homo sum, nihil humani a me alieno puto». Ogni cultura esprime la propria tradizione con pari dignità. La Massoneria e la Macumba, ha affermato Hugo Pratt, del resto, per quanto nascano da tradizioni in apparenza assolutamente inconciliabili, sorgono dalla comune esigenza dell’uomo di avvicinarsi al mondo spirituale. La vocazione esoterica di Pratt (che attraverso il fumetto ha comunque scelto sicuramente uno dei mezzi di espressione più tipicamente caratterizzati dall’understandment) è profondamente sentita e alimentata da una forte tradizione familiare (il nonno e il padre del creatore di Corto Maltese erano infatti ambedue massoni). È una vocazione che lo ha condotto, quasi seguendo in una certa misura l’esempio del suo personaggio preferito, a cercare tracce lasciate dai grandi iniziati in giro per il mondo (per esempio visitando le loro tombe); sempre, insomma, nella realizzazione di quell’ideale di ricerca che -come Lessing insegnava- è preferibile allo stesso possesso della Verità.

Simbologia e attività massoniche nella Serenissima Repubblica di Venezia


Il palazzo dei Dogi in Venezia è senza dubbio alcuno una struttura magnifica. La sua costruzione risale al nono secolo, prosegue e si evolve assieme alla Serenissima Repubblica, sino ad assumere la sua forma attuale attorno alla metà del ’400. Lo stretto legame fra la Basilica di San Marco e il Palazzo, entrambi edifici dogali, ha visto nella prima la metafora del Santo Sepolcro e nel secondo quella del Tempio di Salomone. Ma i veneziani, certamente desiderosi di affermare il primato della propria città in quanto nuova Gerusalemme, nel costruire e completare la sede del governo della città-stato hanno pensato, e non poteva essere altrimenti, a un palazzo: la reggia di Salomone.

Le 36 colonne che sostengono la struttura fanno pensare ai tronchi di una foresta le cui chiome sono rappresentate dai capitelli sui quali spicca una rigogliosa vegetazione. L’albero, nel mondo cristiano, rappresenta il desiderio del cielo, la potenza e la grandezza regale. Non è da escludere che l’immagine del Palazzo abbia preso spunto da quella della reggia edificata da Salomone: "Costruì il palazzo detto Foresta del Libano, lungo cento cubiti, largo cinquanta e alto trenta, su tre ordini di colonne di cedro e con capitelli di cedro sulle colonne" (1 Re 7, 2).

Se ci si avvicina al palazzo, si scopre che tra le foglie dei capitelli spuntano creature di ogni sorta. Fra il porticato e il loggiato si possono contare 582 figurazioni! Personaggi biblici e mitologici, pianeti e segni zodiacali, sapienti e imperatori, dame e cavalieri, santi e artigiani, animali e mostri, vizi e virtù si susseguono in quello che a prima vista può sembrare favoloso, ma anche caotico e indecifrabile, mentre altro non è se non la rappresentazione dell’universo e della storia dell’umanità dalla creazione di Adamo in poi. La progettazione e la realizzazione dei capitelli del porticato e del loggiato e di tutte le sculture esterne avvenne tra il 1340 e il 1355. In questo periodo si ha traccia della presenza di due "architetti", tali Pietro Baseggio e Henricus "tajapiera" che in lingua veneta significa letteralmente tagliapietre, che hanno la qualifica di "protomagister" e che sovrintendono al lavoro di innumerevoli carpentieri, muratori e scalpellini veneziani, toscani e lombardi come i "magistri comacini".

Il primo capitello che ci interessa dal punto di vista massonico è il quinto a partire dal Ponte della Paglia, dal quale viaggiatori di tutto il mondo da secoli ammirano il famoso Ponte dei Sospiri. Si tratta del capitello detto "degli imperatori", che sono: Tito, Traiano, Priamo, Nabucodonosor, Alessandro il Grande, Dario, Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. È interessante notare che Nabucodonosor fu responsabile della distruzione del primo tempio di Gerusalemme nel 587 a.C., mentre Tito distrusse l’ultimo nel 70 d.C. Sul nono capitello troviamo descritte le Virtù: Fede, Forza, Temperanza, Umiltà, Carità, Giustizia, Prudenza e Speranza. La Giustizia è rappresentata da re Salomone sul suo trono. Il diciassettesimo capitello vede elencati uomini famosi per saggezza, arte e scienza. Essi sono: Salomone, Prisciano, Aristotele, Cicerone, Pitagora, Euclide, Tubalcain e Tolomeo. Elenca anche le arti e scienze liberali del Trivium e del Quadrivium. Le iscrizioni sull’abaco del capitello ci aiutano a capire. Dopo SALOMON SAPIENS, il sapiente Salomone, troviamo PRISCIANUS GRAMMATICUS (la grammatica), ARISTOTELES DIALECTICUS (la dialettica) e quindi Marco Tullio Cicerone, TULLIUS RHETOR (la retorica). Subito dopo vediamo Pitagora (che mi fa pensare al "Peter Gower" e ai "Venetians" del Leland M. S.) che ovviamente simboleggia la matematica ed è naturalmente seguito da Euclide (EUCLIDES GEOMETRICUS), raffigurato con in mano un compasso. Segue Tubalcain che è descritto come TUBALCAIN MUSICUS in quanto probabilmente confuso con Jubal, il biblico "padre dei musicisti di cetra e di salterio" (Genesi 4, 21). Chiude il capitello TOLOMEUS ASTROLOGUS, il famoso astronomo vissuto nel secondo secolo dopo Cristo. Tubalcain, che secondo la Bibbia (Genesi 4, 22) fu il primo uomo a lavorare il ferro e il bronzo, secondo la tradizione massonica è stato il primo artista a lavorare i metalli: come mai qui è diventato un "musicus"? Sarebbe stato più logico trovarlo menzionato sull’abaco del ventunesimo capitello, quello dei mestieri, lì dove è scritto FABER SUM (sono il fabbro). Il diciottesimo capitello, che secondo John Ruskin è il più interessante e il più bello, è quello che rappresenta i pianeti, il Sole e la Luna, nelle sedi dello Zodiaco. Il diciannovesimo capitello è quello dei santi scultori, con il quale i "tajapiera", ossia i muratori e gli scalpellini veneziani, onorano i loro santi protettori e in particolare i "Quattuor Coronati": san Claudius, san Chastorius, san Nichostratus e san Simphorianus. Sul capitello è rappresentato anche san Simplicius che non è coronato. Il ventunesimo capitello, quello dei mestieri, rappresenta sul primo lato, quello rivolto verso la piazzetta, il LAPIDICA, come si legge sull’abaco, il lavoratore del marmo, con martello e scalpello. Il ventiduesimo capitello rappresenta l’Astrologia e l’influenza degli astri sulle sette età dell’uomo (infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza, età adulta, età matura e vecchiaia), infine, sull’ottavo lato del capitello, l’ineluttabile conclusione: il vecchio è steso sul letto di morte, le mani incrociate sul petto, il capo posato su di un cuscino. Sull’abaco è incisa l’iscrizione: ULTIMA AETAS EST MORS POENA PECCATI (l’estrema età è la morte, conseguenza del peccato).

La Repubblica di Venezia, la cui data di nascita potrebbe essere fissata nell’anno 726, quando fu eletto il primo dei suoi 117 dogi, cessò di esistere il 12 maggio 1797. Per quasi 1100 anni essa manifestò sempre un vero culto della giustizia. Leggi severissime difendevano lo Stato dai traditori e i cittadini dal sopruso, dal delitto e dalla truffa. Salomone, il re-giudice ispirato da Dio, simboleggia meglio di ogni altro questo alto e nobile concetto della giustizia. Sopra la colonna numero 36, all’angolo nord-ovest del Palazzo, lo troviamo nuovamente con il gruppo scultoreo intitolato "Giudizio di Salomone", dove le due madri si contendono il bimbo che il re saggio, mettendo in gioco l’amore materno, ordina di tagliare a metà.

A partire dall’anno 1000 si trovano i primi indizi della presenza anche a Venezia di "congregationes o scholae", consorterie o confraternite religiose e di mestiere. Attorno alla metà del tredicesimo secolo le corporazioni di mestiere sono legalmente costituite e riconosciute dal pubblico potere, ad esempio ricevono gli statuti dal magistrato competente. Questi statuti si chiamavano in origine "capitularia, statuta o ordinamenta". I capitoli o assemblee generali si riunivano nella sala della scuola, chiamata "albergo", avevano un presidente chiamato "gastaldo", un vicepresidente chiamato "vicario" e parecchi "compagni" che componevano il consiglio. C’erano anche un tesoriere, chiamato "cassiere", e un segretario, chiamato "scrivano". Nessun confratello poteva rifiutare l’ufficio cui era stato eletto. Questo dovere è menzionato per la prima volta nello statuto degli speziali dell’aprile del 1258. Sin dal 1271 le consorterie veneziane stabilirono di destinare una parte delle loro vendite a sollievo dei poveri e degli infermi. Più tardi pensarono alla pensione delle vedove e alla tutela degli orfani e istituirono particolari ospedali per i compagni malati. Accanto alle consorterie delle arti e dei mestieri prosperavano anche le scuole di devozione o confraternite religiose, che non adunavano più soltanto i fratelli della stessa arte, ma erano aperte a tutti. Esse erano completamente autonome per quanto riguardava la piena libertà di eleggere i capi e di redigere i propri statuti, salvo l’obbligo di non violare gli ordinamenti dello Stato e di non operare contro l’onore del Doge. Alcune di queste scuole, come quella di San Giovanni Evangelista, avevano l’abitudine di iscrivere, come fratelli, illustri personaggi anche stranieri, compreso anche qualche inglese, come un certo barone Odoardo Vindefor (sic) morto a 41 anni nel 1574 e sepolto nel complesso dei Santi Giovanni e Paolo.

A questo punto appaiono molti e chiari i punti di contatto, anche sconcertanti, tra le fraternite veneziane e le prime logge dei Liberi Muratori, anche se manca la caratteristica peculiare del segreto e non abbiamo traccia alcuna di rituali. Se le fraternite veneziane avevano dei segreti da tutelare sembra ci siano riuscite benissimo. Per quanto riguarda i rituali appare logico che essi non fossero scritti, ma imparati a memoria e tramandati oralmente nella migliore tradizione massonica. È presumibile che con il decreto del Senato che alla fine del 1500 proibì ai patrizi l’ingresso nelle scuole e mise molti divieti e restrizioni ai rapporti degli stessi con gli stranieri siano state coperte molte tracce. La Massoneria moderna, quella speculativa, quella inglese, quella di Anderson e di Desaguliers, arriva in Italia nel 1729, quando un inglese, Charles Sackeville, duca del Middlesex, fonda una loggia a Firenze, assieme ad altri inglesi ivi residenti, come ad esempio sir Horace Mann, e al primo "martire" della Massoneria italiana, il poeta Tommaso Crudeli. Durante quello stesso anno soggiornò a lungo in Italia e si fermò a Venezia e Firenze Thomas Howard, ottavo duca di Norfolk e prominente Massone. Della loggia di Firenze facevano parte anche Antonio Cocchi, medico personale di Theophilus Hastings, conte di Huntingdon, e l’abate Antonio Niccolini, mecenate coltissimo, famoso per la ricchezza della sua biblioteca, amico di Montesquieu, del principe di Galles e di Walpole. Nel contempo il padovano Antonio Conti, che in Inghilterra aveva conosciuto sia Newton che Desaguliers, nonché il duca di Montague e il cavalier Ramsey, faceva visitare Venezia a Montesquieu, che a quel tempo non era ancora iscritto alla Massoneria, ma che ad essa non era sicuramente indifferente. Altri personaggi veneti che avevano relazioni con Londra, la Royal Society e i circoli massonici francesi e inglesi erano Francesco Algarotti e Scipione Maffei, che secondo Montesquieu era il fondatore di una loggia di Verona. Si può quindi ipotizzare che già dal 1730 esistesse una Massoneria veneta.

La decadenza della Serenissima Repubblica di Venezia inizia con la scoperta dell’America, avvenuta nel 1492, da parte, ironia della sorte, proprio di un cittadino di quella Genova che per secoli era stata nemica e in guerra contro Venezia: Cristoforo Colombo. A dispetto della decadenza politica, militare e commerciale, Venezia non era ancora disposta a subire più di tanto le interferenze straniere o in ogni modo esterne e non gradite. Ecco perché le bolle pontificie "In eminenti apostolatus specula" del 1738 e "Providas romanorum pontificum" rimasero, almeno nel territorio della Repubblica, lettera morta. Nel 1754 un medico francese di nome Bresson venne denunciato dal parroco e arrestato perché appartenente alla setta dei Franchi Muratori. Il fatto provocò l’intervento del Senato che liberò il francese e arrestò il prete, riaffermando, all’interno del territorio della Repubblica, la sua assoluta potestà legislativa e portando con questo suo atto le relazioni diplomatiche con Roma al limite della rottura. Nel 1727, in un teatro di Verona, venne rappresentata una commedia dal titolo "I Franchi Muratori". Nel 1746 il cavalier Alticozzi pubblicò la sua "Relazione della compagnia de’ Liberi Muratori". Non molto successo ebbe in teatro la commedia di Francesco Griselini "I Liberi Muratori", mentre grande successo ebbe durante il carnevale del 1753 la commedia "Le donne curiose" di Carlo Goldoni.

In quello stesso anno il più famoso di tutti i veneziani, Giacomo Casanova, torna a Venezia. Il 21 agosto 1755 viene arrestato, non perché Massone, ma per via della sua condotta libertina e spregiudicata. Negli anni seguenti si diffondono anche nel Veneto sette come quella degli Eletti Coen e sistemi come quelli della Stretta Osservanza e degli Illuminati di Baviera, quasi in contrapposizione alla Massoneria inglese, filantropica e al di sopra di ogni contrasto politico o religioso. A partire dal 1772 l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle logge si modifica in seguito alla svolta conservatrice impressa alla politica veneziana da Andrea Tron. Nello stesso anno la Gran Loggia inglese dei Moderns concede la patente numero 438 ad una loggia di Venezia denominata "L’Union" e la patente numero 439 ad una loggia di Verona. Queste due logge inglesi hanno probabilmente cessato di operare nel 1777-1778. Nella Serenissima abbiamo quattro nuove logge di cui si conoscono anche i nomi: "L’Amore del prossimo" a Padova, "I veri amici" a Vicenza, "La vera luce" a Verona e "La fedeltà" a Venezia. La loggia "L’Union" numero 438 era stata fondata dal segretario del Senato, Pier Antonio Gratarol, e vedeva fra i numerosi Fratelli, che come nelle logge inglesi appartenevano alle più diverse estrazioni sociali, molti nobili, borghesi ed ebrei; contava fra i suoi membri anche un olandese e due o tre inglesi. Se confrontiamo gli elenchi degli iscritti a "L’Union" (1772) con quelli degli iscritti a "La fedeltà" (1785) possiamo notare la scomparsa di nomi stranieri ed ebrei e la preponderanza di aristocratici e funzionari dello Stato. Nel 1785 un governo sempre più preoccupato della sua sopravvivenza in un mondo che cominciava a cambiare troppo rapidamente, dove i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità sfuggivano di mano, uscivano dal salotto e diventavano dirompenti e rivoluzionari, ordinava la chiusura delle logge, cosa che avvenne, come tutto a Venezia, senza troppo rumore. Di lì a pochi anni, il 12 maggio 1797 la Serenissima Repubblica di Venezia si arrendeva, stanca, sfinita e imbelle, una pallida ombra di quello che era stata, a Napoleone Bonaparte. L’ultimo Doge, Lodovico Manin, si spogliò in fretta delle insegne ducali e, prima di lasciare il Palazzo Ducale, consegnò al suo fidato cameriere personale Bernardo Trevisani la cuffietta di tela bianca che i Dogi portavano sotto il corno, e con flemma tutta veneziana disse: «Tenete, questa non l’adopero più». Così si conclude la storia della Serenissima Repubblica di Venezia. Quella della Massoneria veneta, invece, prosegue fino ai giorni nostri con alterna fortuna, ma, almeno per il momento, non ci interessa, anche perché entra a far parte di una storia più vasta, quella della Massoneria italiana.

Bibliografia
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Campagnol A.A.I., I veneziani e la Massoneria, C.I.D.G., Venezia, 1997
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Mola A.A., Storia della Massoneria italiana, Bompiani, 1992
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Norwlch J.J., Venice, the Greatness and the Fall, Allen Lane, London, 1981
Targhetta R., La Massoneria veneta dal 1729 al 1785, Del Bianco Editore, Udine, 1988

[Alessandro Bonelli, da Hiram]

L'insegnamento iniziatico


Sembra che, in un senso abbastanza generale, non ci si renda conto esattamente di ciò che è, o di ciò che dovrebbe essere, l’insegnamento iniziatico, di ciò che lo caratterizza essenzialmente, differenziandolo profondamente dall’insegnamento profano. Molti, in simile materia, prendono le cose in un modo troppo superficiale, si fermano alle apparenze ed alle forme esteriori, e così non vedono, come particolarità degna nota, nulla più dell’uso del simbolismo, di cui non comprendono affatto la ragione d’essere, si può anche dire la necessità, e che, in queste condizioni, non possono sicuramente trovare che strano e per lo meno inutile.

A parte ciò, essi suppongono che la dottrina iniziatica, in fondo, non è quasi che una filosofia come le altre, un po’ differente forse per il suo metodo, ma in ogni caso niente di più, perché la loro mentalità è così fatta che sono incapaci di concepire altra cosa.
E quelli che acconsentiranno lo stesso a riconoscere all’insegnamento di una tale dottrina qualche valore da uno o da un altro punto di vista, e per motivi qualunque, che non hanno abitualmente nulla di iniziatico, non potranno mai arrivare anche essi che a farne tutt’al più una specie di prolungamento dell’insegnamento profano, di completamento dell’educazione ordinaria, ad uso di un’"elite" relativa. Ora, è forse ancor meglio negare intieramente il suo valore, il che equivale in fondo ad ignorarlo puramente e semplicemente, che trascinarlo così in basso e presentare, troppo spesso, in suo nome ed al suo posto, l’espressione di vedute particolari, più o meno coordinate, su ogni sorta di cose che, in realtà, non sono iniziatiche né in sé stesse, né per il modo con cui vengono trattate.
E, se questa maniera per lo meno difettosa di concepire l’insegnamento iniziatico non è dovuta, dopo tutto, che all’incomprensione della sua vera natura, ve ne è un’altra che lo è presso a poco altrettanto, benché in apparenza affatto contraria a quella. È quella che consiste nel volere ad ogni costo opporlo all’insegnamento profano, pur attribuendogli d’altra parte per oggetto una certa scienza speciale, più o meno vagamente definita, messa ogni momento in contraddizione ed in conflitto colle altre scienze, e sempre proclamata superiore ad esse senza che se ne sappia troppo il perché, quando essa non è né meno sistematica nella sua esposizione, né meno dogmatica nelle sue conclusioni. I partigiani di un insegnamento di questo genere, sedicente iniziatico, afferman bene, è vero, che esso è di tutt’altra natura dell’insegnamento ordinario, sia scientifico, filosofico, o religioso; ma non danno di questo alcuna prova e, disgraziatamente, non si fermano lì in fatto di affermazioni gratuite o ipotetiche. Ma vi è di più; raggruppandosi in scuole multiple e sotto denominazioni diverse, essi si contraddicono tra di loro non meno di quanto essi non contraddicano, spesso per partito preso, rappresentanti dei diversi rami dell’insegnamento profano, il che non impedisce a ciascuno di loro di pretendere ad essere creduto sulla parola e considerato come più o meno infallibile.

Ma, se l’insegnamento iniziatico non è il prolungamento dell’insegnamento profano, come lo vorrebbero gli uni, né la sua antitesi, come sostengono gli altri, se non è né un sistema filosofico, né una scienza specializzata, si può chiedere che cosa è; perché non basta avere detto che cosa non è, bisogna anche, se non darne una definizione propriamente detta, il che è forse impossibile, almeno tentare di fare comprendere in che cosa consiste la sua natura. E far comprendere la sua natura, almeno nella proporzione in cui ciò può essere fatto, è spiegare ad un tempo, e proprio per tale mezzo, perché non è possibile definirlo senza deformarlo, ed inoltre perché ci si è ingannati così generalmente, ed in qualche modo necessariamente, sul suo vero carattere. L’impiego costante del simbolismo nella trasmissione di questo insegnamento, di cui forma come la base, potrebbe per altro bastare a fare già intravederlo, per chiunque rifletta un poco, quando si ammetta, come è semplicemente logico di fare senza neppure spingersi fino al fondo delle cose, che un modo di espressione al tutto diverso dal linguaggio ordinario deve essere stato creato per esprimere, almeno alla sua origine, ed in quanto di origine si può parlare, delle idee parimenti diverse da quelle che esprime quest’ultimo, e delle concezioni che non si lasciano tradurre integralmente per mezzo di parole, per le quali occorre un linguaggio meno limitato, più universale, perché esse stesse appartengono ad un ordine più universale.

Ma se le concezioni iniziatiche sono cosa diversa dalle concezioni profane, si è che esse procedono innanzi tutto da un’altra mentalità che quella da cui queste procedono, dalle quali esse differiscono meno ancora per il loro obbietto che per il punto di vista sotto il quale esse guardano questo obbietto. Ora, se tale è la distinzione essenziale che esiste tra questi due ordini di concezioni, è facile ammettere che, da una parte, tutto quel che può essere considerato da un punto di vista profano può esserlo anche, ma allora in tutt’altro modo e con tutt’altra comprensione, dal punto di vista iniziatico, mentre che, d’altra parte, vi sono delle cose che sfuggono completamente al dominio profano e che son proprie del dominio iniziatico, poiché questo non è sottoposto alle medesime limitazioni di quello.

Che il simbolismo, che è come la forma sensibile di ogni insegnamento iniziatico, sia di fatti, in realtà, un linguaggio più universale dei linguaggi volgari, non è permesso di dubitarne un solo istante, quando solamente si consideri che ogni simbolo è suscettibile di interpretazioni multiple, per niente in contraddizione fra loro, ma al contrario completantesi reciprocamente, e tutte egualmente vere benché procedenti da punti di vista differenti; e, se la cosa sta così, dipende dall’essere il simbolo la rappresentazione sintetica e schematica di tutto un insieme di idee e di concezioni che ciascuno potrà affermare secondo le proprie attitudini mentali e nella misura in cui egli è preparato alla loro intelligenza. E così il simbolo, per chi perverrà a penetrarne la significazione profonda, potrà far concepire ben più di tutto quel che è possibile esprimere per mezzo delle parole; e questo mostra la necessità del simbolismo: ciò sta nell’essere il solo mezzo di trasmettere tutto quell’inesprimibile che costituisce il dominio proprio dell’iniziazione o piuttosto deporre in germe le concezioni di questo ordine nell’intelletto dell’iniziato, che dovrà in seguito farle passare dalla potenza all’atto, svilupparle ed elaborarle col suo lavoro personale, perché non si può fare nulla di più che prepararvelo tracciandogli, con delle formule appropriate, il piano che egli dovrà poi realizzare in sé stesso per pervenire al possesso effettivo dell’iniziazione che egli ha ricevuto dall’esterno solo simbolicamente.
Ma se l’iniziazione simbolica, che non è che la base od il sostegno dell’iniziazione vera ed effettiva, è la sola che possa essere data esteriormente, essa può per lo meno venir conservata e trasmessa anche da quelli che non ne comprendono né il senso né la portata. Basta che i simboli siano mantenuti intatti perché siano sempre suscettibili di risvegliare, in chi ne è capace, tutte le concezioni di cui raffigurano la sintesi. Ed è in questo che risiede il vero segreto iniziatico, che è di sua natura inviolabile e si difende per se stesso dalla curiosità dei profani, e di cui non è che una figurazione simbolica il segreto relativo di certi segni esteriori. Non vi è altro mistero che l’inesprimibile, che è evidentemente incomunicabile proprio per questo; ciascuno potrà più o meno penetrarlo secondo l’estensione del suo orizzonte intellettuale; ma quando pure lo abbia penetrato integralmente, non potrà comunicare ad altri che quello che ne avrà compreso egli stesso; tutt’al più potrà aiutare a pervenire a questa comprensione quelli soltanto che vi sono attualmente atti.

Così, il segreto iniziatico è qualche cosa che risiede ben al di là di tutti i rituali e di tutte le forme sensibili in uso per la trasmissione dell’iniziazione esteriore e simbolica, il che non impedisce che queste forme abbiano nonostante, soprattutto nei primi studi di preparazione iniziatica, la loro funzione necessaria ed il loro proprio valore, proveniente dal fatto che esse non fanno in somma che tradurre i simboli fondamentali in gesti, prendendo questa parola nel suo senso più esteso, e che, in questo modo, esse fanno in un certo senso vivere all’iniziato l’insegnamento che gli si presenta, ciò che è la maniera più adeguata e più generalmente applicabile di preparargliene l’assimilazione, poiché tutte le manifestazioni dell’individualità umana si traducono, nelle sue condizioni attuali di esistenza, in modi diversi dell’attività vitale. Ma si avrebbe torto di andare più lontano e di pretendere di far della vita, come molti vorrebbero, una specie di principio assoluto; l’espressione d’un idea in modo vitale non è dopo tutto che un simbolo come gli altri, così bene come lo è per esempio la sua traduzione in modo spaziale, che costituisce un simbolo geometrico od un ideogramma. E se ogni processo di iniziazione presenta nelle sue differenti fasi una corrispondenza, sia con la vita umana individuale, sia anche con l’insieme della vita terrestre, si è che la stessa evoluzione vitale, particolare o generale, può essere considerata come lo sviluppo di un piano analogo a quello che l’iniziato deve realizzare per realizzare sé stesso nella completa espansione di tutte le potenze del suo essere. Sono sempre e dovunque dei piani corrispondenti ad una medesima concezione sintetica, di maniera che essi sono identici in principio, e, benché tutti diversi ed indefinitamente variati nella loro realizzazione, procedono da un Archetipo ideale unico, piano universale tracciato da una Forza e Volontà cosmica che, senza d’altra parte pregiudicare in nulla sopra la sua natura, possiamo chiamare il Grande Architetto dell’Universo.

Ogni essere dunque, individuale o collettivo, tende, consciamente o no, a realizzare in sé stesso, con i mezzi appropriati alla sua particolare natura, il piano del Grande Architetto dell’Universo, ed a concorrere così secondo la funzione che gli appartiene nell’insieme cosmico, alla realizzazione totale di questo stesso piano, la quale insomma non è che l’universalizzazione della sua propria personale realizzazione. L’iniziazione vera comincia per un essere al punto preciso della sua evoluzione in cui esso prende effettivamente coscienza di questa finalità; e, quando esso ha preso coscienza di se stesso, l’iniziazione deve condurlo, secondo la sua via personale, a questa realizzazione integrale che si compie, non nello sviluppo isolato di certe facoltà speciali e più o meno straordinarie, ma nello sviluppo completo, armonico e gerarchico, di tutte le possibilità implicate virtualmente nell’essenza di quest’essere. E, poiché la fine è necessariamente la medesima per tutto ciò che ha medesimo principio, è nei mezzi impiegati per pervenirvi che risiede esclusivamente quel che fa il valore proprio d’un essere qualunque, considerato nei limiti della funzione speciale che è determinata per lui dalla sua natura individuale, o da certi elementi di essa; questo valore dell’essere è d’altra parte relativo e non esiste che in rapporto alla sua funzione, perché non vi è da stabilire alcun paragone di inferiorità o di superiorità tra funzioni differenti, che corrispondono ad altrettanti ordini particolari egualmente differenti benché tutti egualmente compresi nell’Ordine universale, di cui sono, tutti al medesimo titolo, degli elementi necessari.

Così, l’istruzione iniziatica, considerata nella sua universalità, deve comprendere, come altrettante applicazioni, in varietà indefinita, di uno stesso principio trascendente ed astratto, tutte le vie di realizzazione particolari, non soltanto ad ogni categoria di esseri, ma anche ad ogni essere individuale; e, così comprendendole tutte, essa le totalizza e le sintetizza nell’unità assoluta della Via universale. Se, dunque, i principi dell’iniziazione sono immutabili, la loro rappresentazione simbolica non pertanto può e deve variare in modo da adattarsi alle condizioni di cui la diversità fa sì che non vi possono essere matematicamente due cose identiche in tutto l’universo, perché fossero veramente identiche in tutto, o, in altri termini, se fossero in perfetta coincidenza in tutta l’estensione della loro comprensione, non sarebbero evidentemente due cose distinte, ma sibbene una sola e medesima cosa.

Si può dunque dire, in particolare, che è impossibile vi siano, per due individui diversi, due iniziazioni assolutamente simili, anche dal punto di vista esteriore e rituale, ed a fortiori dal punto di vista del lavoro interiore dell’iniziato. L’unità e l’immutabiltà del principio non esigono affatto l’unità e l’immobilità, d’altra parte irrealizzabili, delle forme esteriori, e questo consente, nell’applicazione pratica che deve esserne fatta all’espressione ed alla trasmissione dell’insegnamento iniziatico, di conciliare le due nozioni, così spesso ed a torto messe tra loro in opposizione, della tradizione e del progresso, ma non riconoscendo comunque a quest’ultimo che un carattere puramente relativo. Solo la traduzione esteriore dell’istruzione iniziatica e la sua assimilazione da parte di questa e di quella individualità sono suscettibili di modificazioni, e non questa istruzione considerata in se stessa; di fatti, nella misura in cui tale traduzione è possibile, essa deve forzatamente tener conto della relatività, mentre ciò che essa esprime ne è indipendente nell’universalità ideale della sua essenza, e non si può evidentemente far questione di progresso da un punto di vista che comprende tutte le possibilità nella simultaneità di una sintesi unica.

L’insegnamento iniziatico, esteriore e trasmissibile nelle forme, non è in realtà e non può essere che una preparazione dell’individuo a ricevere la vera istruzione iniziatica per effetto del suo lavoro personale. Si può così indicargli la via da seguire, il piano da tradurre in realtà, e disporlo ad acquistare l’attitudine mentale ed intellettuale necessaria alla intelligenza delle concezioni iniziatiche; si può anche assisterlo e guidarlo controllandone il lavoro in una maniera costante, ma è tutto, perché nessun altro, fosse pure un Maestro nella più completa accezione della parola, non può fare questo lavoro per lui. Quel che l’iniziato deve forzatamente acquistare da per se stesso, perché nessuno né alcuna cosa a lui esteriore può comunicarglielo, è precisamente quel che sfugge per la sua stessa natura ad ogni curiosità profana, vale a dire il possesso effettivo del segreto iniziatico propriamente detto. Ma, perché egli possa arrivare a realizzare questo possesso in tutta la sua estensione e con tutto quel che essa implica, è necessario che l’insegnamento che serve in qualche modo di base e di sostegno al suo lavoro personale si apra su delle possibilità illimitate, e gli permetta così di estendere indefinitamente le sue concezioni, invece di rinchiuderle nei limiti più o meno ristretti di una teoria sistematica o di una formula dogmatica qualunque.

Ora, stabilito questo, fin dove può andare questo insegnamento quando si estende al di là delle prime fasi di preparazione iniziatica con le forme esteriori che vi sono più specialmente collegate? In quali condizioni può esistere tale quale deve essere per compiere la funzione che gli è dovuta ed aiutare effettivamente nel loro lavoro quelli che vi partecipano, purché solamente essi siano capaci di raccogliere da per loro stessi i frutti? Come sono realizzate queste condizioni dalle diverse organizzazioni rivestite di carattere iniziatico? Infine, a che cosa corrispondono in una maniera precisa, nell’iniziazione reale, le gerarchie che tali organizzazioni comportano? Sono altrettante questioni che non è possibile trattare in poche parole, e che al contrario meriterebbero tutte di essere ampiamente sviluppate, senza d’altra parte che sia mai possibile, facendolo, di fornire altra cosa che un tema da riflettervi e da meditare, e senza avere la vana pretesa di dare fondo ad un argomento che si estende e che si approfondisce di più in più a misura che si procede nel suo studio, precisamente perché, a chi lo studia con le disposizioni di spirito richieste, esso apre degli orizzonti concettuali realmente illimitati.

Da Il risveglio della Tradizione occidentale (René Guénon)

mercoledì 28 maggio 2008

Solstizio d’Estate


Nella cornice di Villa Pisani a Strà (Venezia) si terrà quest’anno la Celebrazione Nazionale del Solstizio d’Estate della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M., nei giorni del 20 e 21 Giugno.

Villa Pisani è il famoso Palazzo Ducale di terraferma, una sontuosa villa voluta tra il 1720 e il 1740 come status symbol dalla famiglia Pisani, alla quale appartenne Alvise Pisani eletto Doge nel 1735.

Più che una villa, un palazzo ornato alla facciata da poderose sculture, decorato all’interno dai più celebri artisti del ‘700 veneto.

All’interno, la grande sala da ballo il cui soffitto è impreziosito dall’affresco di Gianbattista Tiepolo rappresentante la Gloria di Casa Pisani, i cui membri allora viventi sono ben riconoscibili.
La Villa, decaduta la famiglia Pisani, conobbe ospiti illustri: acquistata da Napoleone, passò agli Asburgo e ai Savoia nel 1866, che la cedettero un ventennio dopo allo Stato italiano.

Alla villa appartiene un parco della superficie di ben 11 ettari nel quale si trova un grazioso labirinto, testimone del glorioso tempo della villeggiatura veneziana.
Originariamente organizzato secondo i canoni del giardino all’italiana, è stato successivamente trasformato in un giardino informale all’inglese, ma ha conservato il celeberrimo labirinto di siepi di bosco e carpini, ricordato anche da Gabriele D’Annunzio nel suo romanzo Il fuoco (1900).

Per informazioni:
Segreteria organizzativa:
ITO S.r.l. - Via S. Fermo, 25 - 35127 Padova
Tel. 049.660486 - Fax 049.8765379

La massoneria in Italia. E a Venezia.



La prima loggia italiana fu fondata a Firenze nel 1731. Intorno al nucleo iniziale, costituito da inglesi, si aggiunsero gradualmente numerosi nobili ed intellettuali fiorentini. Su questa loggia si esercitarono gli effetti persecutori della bolla pontificia In eminenti, pubblicata il 28 aprile 1738, che inaugurava una lunga serie di scomuniche e di condanne. Sempre nel granducato di Toscana, a Livorno, nacquero addirittura quattro logge: due negli anni 1763 e 1765 (ottennero una patente di fondazione dalla Gran Loggia d'Inghilterra degli Antients) ed altre due nel 1771 (con patente rilasciata dalla Gran Loggia d'Inghilterra dei Moderns).

Il fenomeno massonico arrivò poi a Roma, con alterne vicende: nel 1735 alcuni gentiluomini inglesi diedero vita ad una loggia giacobita, rimasta attiva fino al 1737, quando si dovette sciogliere per ordine del governo pontificio. Ma, rispettivamente nel 1776 e nel 1787, vi vennero fondate due logge, entrambe di rito scozzese. Il 27 maggio 1789 il conte di Cagliostro tentò di organizzare una loggia basata sul proprio "sistema egiziano", ma venne arrestato e processato dal Sant'Uffizio che, nell'aprile 1791, lo condannò a morte come "eretico formale, mago e libero muratore", pena commutata poi nel carcere perpetuo.

Nel 1749 a Chambery (Savoia, parte integrante del Regno di Sardegna) fu fondata una loggia sulla base di una patente di gran maestro provinciale per la Savoia ed il Piemonte rilasciata dalla Gran Loggia di Londra nel 1739 al marchese François Noyel de Bellegarde; nel 1752, la stessa loggia assunse il nome di Gran Loggia Madre, con facoltà di creare altre logge in tutti i territori del regno di Sardegna e, di fatto, nel 1765 ne vennero create tre, tra cui una a Torino. Quest'ultima assunse una tale importanza da far ottenere nel 1773 il conferimento al conte di Bernezzo del titolo di gran maestro provinciale per il Piemonte, con la conseguente completa autonomia dalla Gran Loggia Madre di Chambery. In Piemonte una loggia era presente anche a Novi Ligure.

Nel 1746 fu fondata una loggia a Venezia, alla quale sono da ricollegare le figure di Giacomo Casanova, di Carlo Goldoni e di Francesco Griselini, che rimase in attività fino al 1755, quando l'intervento degli Inquisitori di Stato portò all'arresto del Casanova e ne determinò la chiusura. Ma una nuova loggia sorse nel 1772, con patente della Gran Loggia d'Inghilterra, per iniziativa del segretario del Senato, Pietro Gratarol, e rimase attiva fino al 1777, mentre nasceva un'altra loggia a Venezia, una a Vicenza ed un'altra a Padova.