mercoledì 18 giugno 2008

La loggia veneziana «Fedeltà» e la sua eredità



Le principali notizie sul Rettificato italiano nel Settecento le dobbiamo a Pericle Maruzzi 1, Eques a Tribus Baculis, che raccolse preziosi documenti, come il Codice massonico delle Logge riunite e rettificate di Francia, e manoscritti vergati dalla mano di Willermoz. Nel capitoletto sulle logge rettificate del Veneto (pp. 103–107), Maruzzi informa che Eques a Ceraso, ossia il barone von Waechter, insediò la Prefettura di «Verona» il 17 gennaio del 1778 2.
Nel pie’ di lista del 1778 della Loggia padovana Amore del prossimo risultano iscritti quattro veneziani: il marchese Michele Sessa, l’avvocato Antonio Gini, il maggiore Domenico Gasperoni, tutti maestri, e l’apprendista Matteo Dandolo.
La prefettura di «Verona», composta inizialmente dalle Logge Amore del prossimo e I veri amici, diede patente alla Beneficenza di Corfù e alla Fedeltà di Venezia nel 1780 3, anno in cui la Prefettura di «Verona» aderì al Regime Rettificato (MSO, p. 161).
È probabile che la Fedeltà di Venezia sia stata costituita da Michele Sessa, componente della Prefettura di «Verona» col titolo di Eques Michael a Leone e maestro dei Novizi 4. Cinque anni dopo la fondazione, nel 1785, la Fedeltà e le altre logge rettificate furono chiuse: Maruzzi ne dà notizia in maniera lapidaria. La storia del Rettificato nell'Italia del Settecento, e soprattutto in Veneto, si arresta qui.
La storia ha tuttavia un seguito d’estremo interesse, sebbene ancora sepolto. Nel terzo numero dell’Hiram del 1988 Rossi Osmida dà notizia d’un documento, da lui personalmente acquistato presso la libreria antiquaria «Concarieva Zalosba» di Lubiana, proveniente da un ufficiale della polizia austriaca in forza a Venezia nel 1860.
Si tratta d’una minuta cancelleresca del 7 maggio 1785 per un inventario d’oggetti rinvenuti durante una chiusura forzata d’una Loggia veneziana, e la lista dei presenti: «il documento, redatto nella tipica grafia cancelleresca di fine Settecento, consta di due facciate: la prima è dedicata all’inventario degli oggetti reperiti, requisiti e “abbruciati”; la seconda riporta una lista di 36 affiliati che evidenzia la presenza di 10 patrizi veneti accanto a 26 borghesi» 5. La vicenda si conclude con un rogo delle suppellettili e la chiusura definitiva della Loggia.
Rossi Osmida, dopo aver tratteggiato l’interessante profilo d’alcuni degli affiliati patrizi, giunge a conclusioni probabilmente affrettate: «per quanto attiene la lista degli oggetti, è già possibile intravedere un legame di questa loggia sia con il lavoro alchemico (la nave, la canfora, la corona) sia, e soprattutto, con un Rito Egizio» (ibidem).
Sicuramente Rossi Osmida, che aveva da poco aperto una camera del Rito di Memphis e Misraim a Venezia, è giunto alla sua conclusione sedotto da «una piramide a tre lati con fiammole dipinte, e varj geroglifici» descritta nell’inventario del 1785.
Tuttavia la piramide è l’unico oggetto «egizio» tra i tanti sequestrati, mentre tutti gli altri oggetti menzionati nell’inventario suonano familiari a chi abbia un po' di dimestichezza col regime Rettificato.
Anzitutto conviene menzionare i «quadretti». Sul primo, cui spetta l’apertura, era trascritto il motto «Adhuc stat», divisa che distingue il primo grado del regime. L’inventario aggiunge che vi era raffigurato un «pezzo di colonna». Nell’inventario redatto nel maggio del 1785 si ricorda anche un altro quadretto raffigurante una squadra e il motto «dirigit obliqua», divisa del secondo grado rettificato. Oltre questi quadretti è menzionato uno specchio su cui era scritto «se avete un vero desiderio, se avete coraggio ed intelligenza, tirate questa cortina, e apprenderete a conoscervi» (a sinistra un disegno attribuito a una loggia del «Rio Marin», ma da riferire alla veneziana Fedeltà, in cui entro il riquadro d'uno specchio è scritta la frase riportata anche nell'inventario).
Un terzo quadretto che faceva mostra di sé nella loggia veneziana raffigurava un nave in burrasca, accompagnata dal motto «in silenzio & spe fortitudo mea», divisa del grado di maestro nel regime rettificato. La piramide triangolare –e non quadrata– che in Rossi Osmida ha evocato suggestioni di riti egizî, forse andava accompagnata dalla «tabella di latta col motto “depone aliena”», altro simbolo del terzo grado. Su questa piramide triangolare era inciso «tria formant». (a sinistra un disegno attribuito a una Loggia del «Rio Marin», ma molto probabilmente sequestrato alla loggia fedeltà, con i motti «tenebre eam non comprehenderunt» e «depone aliena»).
Basta soffermarsi su questi oggetti per rendersi conto che l’inventario del 1785 elenca con precisione tutti gli arredi necessari a una Loggia che lavori al rito rettificato. Rossi Osmida s’è concentrato sui personaggi più noti, come Alvise Mocenigo, o Alvise Querini, o il fratello di Pindemonte.
Ma la riprova definitiva che la loggia sorpresa dalle guardie era la Loggia veneziana Fedeltà all’obbedienza della Prefettura di «Verona» ce la dà il nome del «Venerabile», Michele Sessa, noto come Eques Michael a Leone (cioè «Michele veneziano») e maestro dei novizi, compito che seppe assolvere egregiamente se la Fedeltà, nel momento in cui fu sorpresa intenta nei suoi lavori, contava su trentasei Fratelli presenti.
E il secondo menzionato nell’inventario del 1785 è il maggiore Domenico Gasperoni, il secondo dei Veneziani nel pie’ di lista della padovana Amore del prossimo, immediatamente dopo Michele Sessa. Non è arduo trarre le conclusioni. I Veneziani Sessa e Gasperoni, tra i fondatori della Prefettura di «Verona» nel 1778, nel 1780 fondano la Fedeltà (vedi nota 3) all’Oriente di Venezia, e la sviluppano sin quando non incorrono nella repressione del maggio 1785.

L’inventario non farebbe che confermare definitivamente quanto scriveva Maruzzi: la chiusura d’almeno una delle logge rettificate, e a seguito d’una vicenda incresciosa. Ma è proprio a causa di questa improvvisa «morte» che possiamo farci un'idea dei principi del rettificato e dell'episodio che vide coinvolta la loggia: nello stesso anno in cui alla Fedeltà era proibita ogni riunione, il 1785, il tipografo Leonardo Bassaglia pubblicava un libretto anonimo di 95 pagine e corredato da incisioni, intitolato

Istituzione riti cerimonie
dell’Ordine de’ Francs-Maçons
ossian Liberi Muratori

Colla descrizione e disegno
in rame della loro Loggia

E insieme un preciso dettaglio
delle funeste loro peripezie

Già il colophon, alludendo alle «funeste peripezie», si presenta come un «istant book», un libro concepito proprio a causa della chiusura della fedeltà e del rogo dei suoi arredi e paramenti.
L’allusione si precisa in apertura del primo capitolo:

«Qualunque avvenimento strepitoso ha diritto ad eccitar nel pubblico tanto la curiosità d’intenderne le particolari sue circostanze, quanto a farne parlar tutti liberamente come loro più piace. Basta perciò ch’ei si sappia una peripezia di fresco accaduta a una Loggia di Francs-Maçons, che si era non ho molto stabilita in queste nostre adriatiche regioni, perché apparisca giustificato il divisamento di compilarne sul momento tutte quelle notizie, che servir possano a soddisfar il genio de’ curiosi... »
(il corsivo è mio, n.d.a.)

Il lettore è avvertito che sia pure senza menzionarla si parla della Fedeltà, nata nel 1780 e chiusa a causa di un episodio eclatante cinque anni dopo, e del rogo che ebbe sicuramente ampia eco sulla laguna. Ulteriore conferma viene dal placet delle autorità preposte alla licenza di stampa, dato il 25 e il 27 maggio. Dunque l’opuscolo è stato approntato in meno d’un mese dalla «funesta peripezia».
Il testo è redatto con abilità, molto probabilmente da un componente della Loggia Fedeltà o comunque da un Fratello che dietro l’apparenza di voler denunciare le presunte malefatte della massoneria, in realtà ne difende i principî e li divulga con ardore.
D’altronde il parere della commissione dei «Riformatori dello studio di Padova», da cui dipendeva il placet per le stampe, è firmato tra l’altro da Francesco Morosini e Girolamo Ascanio Giustinian (Ist., p. 95), e nell’Offina Fedeltà erano presenti al momento dell’irruzione e del sequestro Alvise Morosini e... Girolamo Giustinian (Cfr. inventario).
Qualora non si tratti d’una omonimia, e Girolamo Giustinian sia la stessa persona, non solo diviene comprensibile il placet, ma dovremo ipotizzare ragionevolmente che l’autore dell’omonimo opuscolo possa essere proprio lui. Certamente un aspetto da approfondire.
Chiunque ne sia stato l’autore, l’opuscolo apre la sua apparente invettiva contro la massoneria con un elogio dei suoi principî. In primo luogo la tolleranza:

L’Ordine de’ Francs-Maçons... unisce insieme e colle medesime viste una quantità grande di persone, senza che la diversità del carattere, della inclinazione, o della Religione vi rechi alcun ostacolo.
(Il corsivo è mio, n.d.a.)

Il riferimento al primo punto delle Costituzioni andersoniane è abbastanza palese: «.. la muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti». Ma l’elogio cede il passo all’aperta apologia:

Non havvi secondo i parziali di questa società, fra tutte le compagnie del mondo, unione di questa più dolce, più saggia, più vantaggiosa, e nello stesso tempo più speciosa e singolare. Uniti insieme col dolce nome di fratelli...
(Ist., p. 4. Il corsivo è mio, n.d.a.)

E le accuse? Come sempre la più antica è rivolta contro la segretezza dell’Ordine, e le cospirazioni che servirebbe a celare. Il nostro autore la respinge con forza:

Il gran segreto che osservano scrupolosamente in ciò che fanno nelle loro adunanze... non mancarono per verità di far concepir de’ sospetti svantaggiosissimi per tali assemblee, quasichè fosse a temere che... sotto un sigillo inviolabile di segretezza, potesse per avventura ostare alla costituzione, e intorbidare la tranquillità dello Stato. Ma... poiché i Socj vantano di portar impresso nel cuore l’amore del loro ordine e della pace sostenendo che nella loro Scuola... si può imparare qual rispetto, qual sottomissione, e qual venerazione debbasi avere per la Religione, pel Principe, e pel Governo.
(Ist., ibidem)

Dunque

sarebbe ridicola cosa il supporre che nelle loro Loggie potessero aver luogo affari concernenti o la Religione o il Principato ... (Ist., ibidem)

E con ciò il nostro appassionato apologeta rintuzza le accuse, certamente risuonate per le calli della Serenissima, e al contempo afferma con vigore il secondo punto delle Costituzioni andersoniane, e lo fa proprio: « un muratore è un pacifico suddito dei poteri Civili... per cui essi (i liberi muratori, n.d.a.) praticamente risposero ai cavilli dei loro avversari e promossero l’onore della loro fraternità, che sempre fiorì in tempi di pace».

Obiettivo della massoneria è altrettanto chiaro: riedificazione del Tempio di Salomone, che non va intesa alla lettera, ma come «opera allegorica che raffigura una riforma del cuore» (Ist., p. 5). A evitare interpetazioni letterali, correnti nel mondo massonico ancor oggi, il nostro autore ribadisce la causa della «riforma»: «la distruzione del Tempio non rappresenta che la caduta dell’uomo dal primo stato felice». Questa sottolineatura dell’allegoria del «tempio dell’uomo» rievoca la memoria di de Maistre al duca di Brunswick (1782), che a proposito del terzo grado caldeggia la lettura allegorica, e soprattutto la sua concezione della massoneria come «Science de l’homme par excellence» 6.
Ma il tema è tipico del rito Rettificato, e lo ricordava Faivre: «Car le Rite Écossais Rectifié réactualize le Temple... Il s’agit pour le maçon de reconstruire le Temple primitif, d’avant la chute, pour y faire entrer de nouveaux Dieu et pour que les hommes eux–mêmes piussent y retourner comme des anfants prodigues, entraînant la nature entière dans cette assomption» 7.
Prosegue infatti lungo l’assioma allegorico del Rettificato il nostro autore delle Istituzioni:

Il Tempio di Salomone, la sua fabbrica e magnificenza, la sua caduta e le sue rovine, il suo ristabilimento e splendore, non figuravano in questa ultima spiegazione se non se il Cuore umano formato da Dio medesimo, ricolmo dei più ricchi doni, e determinato per sua natura al bene, ma poi del tutto corrotto dalla violenza delle passioni. Si voleva, che quello Cuore deplorabile, serbando ancora nel suo avvilimento tratti della passata grandezza, dimandasse che la se rendesse tutta perfetta, qual l’aveva una volta... In questo aspetto non più avevano i Liberi Muratori da apparir occupati in edifizj puramente mondani e terreni... Saranno i Liberi Muratori quel popolo fortunato... di sciogliere l’umano cuore dalle catene di schiavitù sì vergognosa... e di richiamare nel mondo la prima bella innocenza.
(Ist., p. 10)

Dunque il nostro autore prima compara la rovina del tempio alla caduta dell’uomo: «la distruzione del Tempio non rappresenta che la caduta dell’uomo dal primo stato felice»; e infine la ricostruzione del tempio alla restaurazione della «prima bella innocenza» del cuore, seguendo fedelmente persino i termini della Regola di Wilhelmsbad.
Nella Regola massonica approvata a Wilhelmsbad nel 1782 la caduta si condensa nel secondo articolo in accorate esclamazioni: «Homme! Roi du monde!... Etre degradé! malgré ta grandeur primitive...» , e infine, nel nono e ultimo articolo, nella prospettiva delle reintegrazione: «ô mon frère! ... tu recouvreras cette ressemblance divine, qui fut le partage de l’homme dans son état d’innocence» 8.
Il grado di Scozzese di Sant’Andrea ammonisce: «Vous voyez ici les ruines de ce temple célèbre que Salomon fit élever à Jérusalem... Le Temple fut détruit...» 9.

Il nostro autore, tratteggiati con calore principî e fini dell’Ordine, ovvero del Regime Rettificato, si sofferma su due mezzi, con discreto anticipo sulle parole d’ordine della rivoluzione francese, cioè libertà e uguaglianza:

Quanto alla Libertà e alla Uguaglianza, che sono le prerogative preziose che si attribuisce la Società... producono l’effetto maraviglioso di adunar in una medesima Setta i partigiani di qualsisia altra Società, diventando un legame mirabile e universale che riunisce tutti senza pregiudizio di alcuno... La prima fa sparire ogni idea importuna e mortificante di superiorità... La seconda poi produce quella pace deliziosa, quella confidenza così dolce... incompatibile coll’avarizia... Cotesta indipendenza ... altro non è che il ristabilimento di quell’età chiamata dai Poeti Età dell’Oro... Quest’era quel tempo felice, nel quale il cuore libero da ogni passione ne ignorava fino i più semplici movimenti... e in cui gli uomini uguali e sudditi delle sole leggi della Natura non ammettevano altre distinzioni che quelle, cui questa saggia madre aveva posto tra essi, come quella di un padre verso un figliuolo...
(Ist., p. 13)

Anche in questo caso, sebbene l’autore attribuisca a «Cromwello» lo stabilimento della massoneria e dei suoi principî, il modello è la regola di Wilhelmsbad: «fidèle au voeu de la nature, qui fut l’égalité, le Maçon rétablit dans ses temples le droit originaires de la famille humaine» (VIII, I).
A sigillo del Regime Rettificato il nostro autore ha voluto, a fianco del frontespizio, un’ incisione (a sinistra) che sintetizza le ‘anime’ dei gradi: Adhuc stat, Dirigit obliqua, In silentio, et spe fortitudo nostra. E i cinque animali, che vengono mostrati solo a coloro che hanno un «gusto distinto pel sistema dell’Ordine», cioè gli «Architetti o Scozzesi» (Ist., p. 81).

Dunque Istituzioni riti e cerimonie..., l’opuscolo stampato nel 1785, è scaturito dalla «funesta peripezia» occorsa alla Loggia veneziana Fedeltà, aderente alla Prefettura rettificata di «Verona», ed è stato scritto con il preciso obiettivo di consegnare la sua eredità ai posteri: consegnare i principî e i fondamenti del regime Scozzese Rettificato agli uomini di «cuore».
Grazie all’inventario e alle Istituzioni noi dunque disponiamo di preziosi elementi per studiare e approfondire il ruolo dell’Italia nella riforma Rettificata, e proseguire il lavoro di Pericle Maruzzi.
Ma anzitutto abbiamo l’oneroso e al contempo grato compito di vivificare l’eredità che la Fedeltà ci ha consegnato. Essa, con le sue vicissitudini analoghe al Tempio di Salomone, la sua edificazione, il suo splendore, la sua rovina, la sua testimonianza e la sua eredità, costituisce il cuore della nostra colonna infranta: l’allegoria che deve nutrire la riedificazione del tempio dell'uomo.

Perit ut Vivat

1. Maruzzi consultò gli Archives de Bourgogne della loggia zurighese Modestia cum Libertate, e pubblicò Notizie e documenti sui liberi muratori in Torino nel sec. XVIII, ripubblicato nel 1990 col titolo La Stretta Osservanza e il Regime Scozzese Rettificato in Italia nel secolo XVIII (d’ora in poi «MSO»).

2. Il capitolo di Verona era costituito da dodici Fratelli. Cfr. Matricula Specialis Magni Priorat: Italiae. Capitul: des Prioratus von Italien, e Dritte Balley, die Lombardische genannt, in «Archives de Bourgogne», AdB, presso la Modestia cum Libertate di Zurigo (MSO, pp. 302–04).

3. Cfr. MSO, p. 162, da Allgemeines Handbuch der Freimaurerei, Leipzig, 1863–79, I3 385 a.

4. Cfr. Tableaux du + Prefectural de Verone senat à Paoue, in AdB (MSO, p. 162 e p. 316)

5. Gabriele Rossi–Osmida, Venezia maggio 1785, in «Hiram», n. 3, marzo 1988. p. 82.
6. Joseph de Maistre, La Franc–Maçonnerie. Mémoire au Duc de Brunswick, L’Harmattan 1993, p. 69.

7. Antoine Faivre, Accès de l’ésotérisme occidental, cit. in Jean Ursin, Création et histoire du Rite Ecossais Rectifié, Dervy 1994, p. 177.

8. Regle Maçonnique à l’usage des Loges réunies et rectifiées approuvée au Convent Général del Wilhelmsbad en 5782, art. II, in Jean Tourniac, Principes et problèmes spirituels du Rite Écossais Rectifié et de sa chevalerie templière, Dervy 1969, p. 274 sgg..

9. Hugues d’Aumont, Templiers & Chevalerie spirituelle des hauts grades maçonniques, Trédaniel 1996, p. 66.


[Maurizio Nicosia, da http://www.zen-it.com]

sabato 7 giugno 2008

Templari e Cavalieri di San Giovanni

L'attuale sede del Sovrano Militare Ordine di Malta in Venezia proviene da un palazzo che era dei Templari, e in seguito alla confisca dei loro beni fu assegnato alla "Religione degli Ospedalieri di San Giovanni".
Troviamo la prima notizia dell'insediamento dei Templari a Venezia in un atto di donazione fatta il 9 novembre 1187 da Gerardo, Arcivescovo di Ravenna, di alcuni terreni siti in Venezia in località Fossaputrida, affinché vi costruissero uno spedale e una chiesa; si ha motivo di ritenere che la casa e la chiesa di San Giovanni del Tempio trasferite dopo la soppressione dei Templari ai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, fossero quelle dove ha ora sede il Gran Priorato di Lombardia e Venezia. La Fossaputrida sarebbe il territorio di San Giovanni in Bragora, attuale parrocchia in Venezia.

Nel 1313 il Cavaliere frà Nicola da Parma, priore di Venezia dell'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, accompagnato dal Cavaliere fra' Bonaccorso Trevisan, si presentava al doge Soranzo per chiedere che i beni già appartenuti ai Templari fossero riconosciuti proprietà dei Giovanniti. La domanda fu accolta ed essi acquisirono, come si è detto, i conventi e le chiese di San Giovanni del Tempio (dette anche dei Furlani perché in quei pressi abitavano numerosi cittadini provenienti dal Friuli) e di Santa Maria in Broglio (o Brolo).

Ma già prima che pervenissero all'Ordine i beni dei Templari si ha notizia dell'esistenza a Venezia di un Priorato. Infatti, come risulta da un atto del 19 settembre 1263, in quel periodo era Priore fra' Engheramo da Gragnana, al quale successe fra' Guglielmo Bolgaroni.
La più antica raffigurazione del Priorato, ci è data dalla famosa pianta di Venezia delineata da Jacopo de' Barbari nell'anno 1500. Nella xilografia di questo artista, diligente e fedele nel riprodurre la realtà, si vedono disegnati la chiesa e il convento di San Giovanni del Tempio, poi di Malta, nell'aspetto planimetrico e volumetrico che conservano tutt'ora. Infatti, molteplici restauri succedutisi in varie epoche hanno certamente mutato l'aspetto degli edifici, ma non la loro struttura fondamentale.

Perduta Malta nel 1798, ebbe inizio per l'Ordine un periodo molto triste della sua storia. Il Gran Priorato di Venezia, in esecuzione al decreto di Napoleone in data 30 aprile 1806, venne soppresso e i suoi beni divennero proprietà demaniale. Il Commendatore fra' Fulvio Alfonso Rangone, che era in quel tempo Ricevitore e Luogotenente del Gran Priore fra' Giovanni Battista Altieri, dovette consegnare gli edifici al demanio.
Il Luogotenente di Gran Maestro dell'Ordine fra' Carlo Candida, eletto nel 1834, si adoperò energicamente presso la Santa Sede e altri governi ed ottenne la restituzione di molti beni. Nel 1839 furono ricostituiti gli antichi Gran Priorati di Lombardia e di Venezia in un unico Gran Priorato di Lombardia e Venezia, con giurisdizione anche nei territori di Parma, Modena e Lucca, con sede in Venezia, e Ferdinando I Imperatore d'Austria, con patente in data 5 gennaio 1841, restituì ai Cavalieri Gerosolimitani la chiesa di San Giovanni del Tempio, il palazzo priorale e il terreno adibito ad orto.

La restaurata sede del Gran Priorato di Lombardia e Venezia fu inaugurata solennemente il 24 giugno 1843, con l'intervento del Gran Priore fra' Giovanni Antonio Cappellari della Colomba (nipote di Papa Gregorio XVI), del Bali' fra' Federico Arciduca d'Austria. Quest'ultimo doveva poi morire a Venezia nel 1847, e trovar sepoltura nel 1854 nella chiesa priorale in una tomba progettata dallo Zandomeneghi, con iscrizione di Emanuele Cicogna. Numerosi sono gli stemmi dei Gran Priori e di Cavalieri dipinti lungo tutto il chiostro del Gran Priorato.

Sono ora cominciati dei radicali lavori di restauro, atti a risanare il palazzo del Gran Priorato e la Chiesa, che avevano subìto danni notevoli a causa delle alluvioni e delle frequenti alte maree che in questi ultimi anni hanno colpito Venezia.

[dal sito ufficiale dello smom]

venerdì 6 giugno 2008

Il Graal e i misteri di San Marco



La città di Venezia è ricca di leggende su antiche reliquie cristiane dato anche gli stretti rapporti economici con il mondo orientale e così ovviamente non potevano mancare storie sui Templari e il mistico Graal, la coppa nella quale, secondo la leggenda, Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo.

La via che porta questa favolosa reliquia in città è quella che conduce a Costantinopoli, l’odierna Istanbul, città conquistata dai Crociati e strettamente legata al capoluogo veneto. In particolare proprio durante la Quarta Crociata cavalieri e mercanti portarono in città cultura e tradizioni mediorientali oltre ai moltissimi tesori provenienti dalla città turca come i quattro cavalli in rame presenti sulla Basilica di San Marco e che tradizione vuole avessero al posto degli occhi degli splendidi rubini. Si sa ancora che da Costantinopoli sarebbe provenuta la Corona di Spine di Gesù che Luigi IX di Francia riuscì a sottrarre alla città per portarla in Francia, presso la Sainte Chapelle, dunque non sarebbe impensabile che, nel caso fosse davvero esistito, il Graal nel suo mistico cammino fosse davvero giunto nella città.

La tradizione lo vuole nascosto nel trono di San Pietro, il sedile ove si sarebbe davvero seduto l’Apostolo durante i suoi anni ad Antiochia costituito da una stele funeraria mussulmana e decorato con i versetti del Corano oggi presente nella chiesa di San Pietro in Castello. Si narra che questa poi sarebbe stata trasferita successivamente a Bari, città legata a quella veneta da interessanti tradizioni comuni come il santo Nicola le cui due città si spartiscono le sacre reliquie. Alcune tradizioni locali, poi, vogliono che nella chiesa di San Barnaba fosse stato seppellito il corpo mummificato di un cavaliere crociato francese dal nome di Nicodemè de Besant-Mesurier, legato alla vicenda della traslazione della mistica coppa ritrovato nella zona nel 1612. In realtà non sono mai stati trovati documenti che parlassero di questo cavaliere.

I misteri legati alla religione Cristiana non trattano solo di reliquie, ma diverse sono anche le tradizioni legate a l’Inquisizione e piazza San Marco, tracce di angusti ricordi sparsi in una delle più belle piazze d’Italia e spesso celati agli occhi del comune viaggiatore. All’angolo destro della Basilica, ad esempio, è presente un cippo che la tradizione vuole utilizzato per le esecuzioni, mentre guardando le colonne del primo loggiato del vicino Palazzo Ducale, ne possiamo scorgere due di colore differente dalle altre ove, secondo la tradizione, venivano lette le sentenze di morte poi eseguite nella piazzetta antistante o nel vicino Campanile. Ecco così che il meraviglioso Campanile che svetta nella piazza nasconde anch’esso macabri ricordi, infatti è legato alla tradizione del supplizio di cheba, una gabbia in ferro sospesa nel vuoto nella quale i condannati venivano esposti al pubblico ludibrio anche per lunghi periodi sfidando le intemperie e dunque la morte che presto sopraggiungeva quasi come liberazione. Sempre tra le colonne del Palazzo Ducale, poi, era offerta l’ultima speranza di salvezza, e infatti, sul lato della costruzione che si offre al mare era presente una colonna che ancora oggi appare con il basamento consumato. Ai condannati era offerta una ultima grazia: se fossero riusciti a girar intorno alla stessa senza cadere mai dallo strettissimo basamento sulla quale poggia, operazione davvero impossibile.

[Andrea Romanazzi, da acam.it]

giovedì 5 giugno 2008

Movimento Rosacruciano e Massoneria



I legami del mondo esoterico misteriosofico favorevole alla Riforma sono proiettati in campo politico su due fronti: quello britannico e quello Palatino. Elisabetta, figlia di Giacomo I d'Inghilterra, sposa Federico V, elettore Palatino dell'Impero Asburgico, nel 1613. Il matrimonio è celebrato con una complessa e segreta simbologia nelle Nozze Alchemiche di Christian Rosenkreutz, attribuito a J. V. Andreae. Il Christian Rosenkreutz tedesco come speculare al Cavaliere della Rosa Rossa del The Fairie Queen di Edmund Spenser. Il primo, esattamente come lo sposo Palatino, veste le insegne del Toson D'Oro germanico e quelle dell'Ordine della Giarrettiera britannico. Speranze antiasburgiche e antipapali riposte dai circoli esoterici, kabbalistici e misterici nell'aiuto della Gran Bretagna alla causa Palatina. Subito prima del matrimonio J. V. Andreae ha pubblicato la Fama Fraternitas e subito dopo sono apparsi dei manifesti Rosacrociani che riprendono idee ed inviti ai fratelli rosacrociani invisibili della Fama.

Traiano Boccalini da Venezia, nei Ragguagli dal Parnaso (1612-13), esprime le medesime convinzioni. Un capitolo di quel libro ("Sulla riforma generale dell'Universo") è inserito nelle prime edizioni della Fama Fraternitas di J. V. Andreae. 

Esiste una connessione tra circoli britannici, veneziani e praghesi all'insegna della saldatura tra alchimia, filosofia, kabbalah ed ermetismo: John Dee, Robert Fludd, Guglielmo Postel, Triaiano Boccalini e Michael Maier. Prodromi dell'Illuminismo Filosofico settecentesco nelle opinioni dei Rosacroce.
Michael Maier affera esistere nel 1622 a l'Aja una società di alchimisti che si facevano chiamare Rosa-Croce. Friedrich Nicoali (1783) riprende la notizia dicendo che tale società aveva ramificazioni internazionali ad Amsterdam, Norimberga, Amburgo, Danzica, Erfurt, Mantova e Venezia: i membri vestivano cordone bleu con croce d'oro sormontata da una rosa. Statuti e organizzazione sarebbero in libri, redatti da massoni, non facilmente reperibili.

E' da sottolineare comunque che alcuni autori ritengono pressoché inutili le ricerche sulle formazioni storiche autodefinitesi Rosacrociane. Il termine Rosa Croce sarebbe riferito precisamente ad un particolare grado e dignità iniziatica, la cui trasmissione non è di per sé collegata ad una struttura stabile. L'invisibilità di cui parlano i manifesti Rosacrociani di Andreae sarebbe quindi riferita alla principale caratteristica degli iniziati Rosacrociani, che mai manifestano tale status e per di più non fanno riferimento ad una società od Ordine.

Il Frosini afferma la Massoneria esistere a Venezia dal 1535 sino al 1686, data in cui fu interdetta, senza citare le fonti. E' possibile una continuità storica con il passato e la successiva Massoneria speculativa dell'Illuminismo. Ultimo anello della catena potrebbe essere costituito dalla setta ereticale di Fausto Socino.

Per la Massoneria ufficiale non è dato sapere se essa sia stata introdotta a Venezia dopo la visita del Gran Maestro della Loggia di Londra, sir Thomas Howard, nel 1729, o se sia stata ufficializzata sotto nuova forma, utilizzando una precedente attività latomistica camuffata. A questo proposito il Sagredo fornisce notizia della scoperta di una conventicola di Liberi Muratori in una casa  della Madonna dell'Orto: missionari francesi avrebbero fondato tale società.

La nascita della Massoneria veneziana moderna avviene all'epoca di Casanova e Goldoni. Venezia torna comunque indirettamente alla ribalta ad  opera di J. E. Marconis de Négre, figlio di un ufficiale dell'armata francese in Egitto, che istituisce la Società dei Saggi della Luce. Sostiene la conversione del prete egiziano Ormuz da parte di San Marco e la linea di trasmissione iniziatica dagli Esseni sino ai Cavalieri Gerosolimitani in Svezia e Scozia. Qui sorge la moderna Società dei Saggi della Luce, che reca nel suo sigillo il familiare leone di San Marco con il Vangelo aperto. A Venezia, con Cagliostro, nasce anche il filone Egiziano.

mercoledì 4 giugno 2008

I tajapiera veneziani, la tecnica

A Venezia, a partire dal 1300, inizia la "pietrificazione" della città. Al posto del legno, usato fino ad allora nell'edilizia, viene impiegata come materiale da costruzione soprattutto la cosiddetta pietra d'Istria, proveniente dall'altra sponda dell'Adriatico, una pietra sedimentaria, particolarmente resistente all'acqua salata.
In massima parte, ponti, case, chiese e palazzi di Venezia sono costruiti, decorati e rivestiti di pietra d'Istria.

Nel corso dei secoli a Venezia si è consolidata una speciale tecnica di lavorazione della pietra, che comporta l'uso di metodi e di strumenti particolari, che si differenziano molto da quelli adoperati, ad esempio, per la lavorazione del marmo (così come, per fare un paragone, la lavorazione dei metalli è differente a seconda del tipo di metallo impiegato).
Ci sono alcuni strumenti principali che sono arrivati fino ai nostri giorni inalterati e sono per ordine d'uso i seguenti:

s-ciapìn, scalpello che serve per iniziare a squadrare il blocco di pietra e cominciare il lavoro: consente di salvare lo spigolo (se ne usano varie misure: da forza o da lavoro delicato);
le punte: lunghe per lavori imponenti (es. scavare una vra da pozzo), medie e corte con variazioni di diametro per lavori più fini (es. scultura e ornato);
scalpelli: di varie misure, di larghezze variabili sia dalla parte del taglio che nel diametro, perché lunghezza, larghezza e diametro determinano scarichi di forza differenti; tra gli scalpelli particolare importanza ha la gradina che consente di lavorare senza "offendere" la pietra, toglie il sovrappiù senza penetrare troppo; altro scalpello che non "offende" è l'ongèa (che ha la forma di un'unghia), non ha spigoli, non si pianta e non fa danni;
martelli: per le superfici da raddrizzare o da squadrare si usano: lo sgrafòn, che è simile ad un'ascia, come per il legno, o la martellina, più leggera; ci sono poi la bocciarda, quadrata, con piastrine fisse o intercambiabili, di varie misure, per rendere ruvida la pietra e creare contrasti con le altre parti lisce, e la mazzetta che serve per battere sullo scalpello.

Vi sono inoltre vari tipi di trapani, di compassi e molti altri strumenti che sarebbe troppo lungo elencare.
Del resto la specificità del lavoro del tajapiera è determinata non soltanto dal tipo di attrezzo, ma anche dalla durezza e dalla qualità dello strumento. Spesso entra in gioco la "tempera". Gli scalpelli a Venezia vengono ancora forgiati da fabbri esperti ed in mancanza di questi dagli stessi scalpellini/scultori.

Spesso c'è un rapporto stretto, quasi soggettivo, del "tagiapiera" con i suoi strumenti, come l'autista con la sua macchina, il gondoliere con la sua gondola.
E inoltre è necessario conoscere il materiale. L'abilità del tajapiera sta proprio nel saper decidere quale attrezzo usare a seconda del tipo di pietra che ha di fronte.
La pietra d'Istria più adatta alla scultura era l'orsera (dal nome della località dove veniva estratta), mentre per le fondazioni, le difese a mare, le rive, veniva impiegata una pietra di qualità meno pregiata, detta "grigia". Sono materiali che oggi non si trovano quasi più, perchè non sono più commerciati.

Oggi Venezia, un poco alla volta, sta perdendo la sua identità, anche perchè ormai sta perdendo la categoria di lavoratori che l'hanno costruita.

[Roberto Giusto, archeove]

lunedì 2 giugno 2008

Mondo Massonico e Alchimia



Il legame più sicuro è con l'alchimia filosofica dei Rosacroce, nel XVII secolo. Ma c'è un intreccio col mondo filosofico dell'alchimia fin dal Medioevo.
I primi alchimisti individuabili storicamente a Venezia potrebbero essere appartenuti alla corporazione dei Vetrai, presenti già prima del 1255 in città e successivamente trasferiti d'ordine a Murano per problemi di sicurezza (incendi). 

Di sicuro, la famiglia di Angelo Baroviero raccoglie il segreto della fabbricazione di un famoso vetro trasparente dall'alchimista marchigiano Paolo Godi di Pergola e lo trasmette ai suoi discendenti sino al XV secolo.

Una decisione del Consiglio dei Dieci (17 dicembre 1488) vieta severamente l'esercizio dell'alchimia. Il provvedimento è rivolto principalmente contro i contraffattori d'oro, così come la bolla Spondent Pariter (1317), emanata da Giovanni XXII. L'alchimia tradizionale rimane il vero oggetto di conoscenza: allo stesso Papa viene attribuito il trattato Ars Trasmutatoria, stampato postumo (1557).

Sembra accertata la presenza a Venezia di una società segreta di alchimisti, detta Voarchadumia, attiva tra il 1450 e il 1490. Una società che ha ramificazioni internazionali. Tra i membri illustri sir George Ripley, canonico britannico. Nel 1530 (nel 1478 secondo altre fonti), a Venezia, Johannes Augustinus Pantheus, sacerdote veneziano, pubblica un voluminoso trattato che ha lo stesso nome, Voarchadumia, l'oro dei due rossi o della cementificazione perfetta, dedicato al Doge Andrea Gritti. Pantheus dedica inoltre un precedente lavoro, L'Arte della trasmutazione perfetta, all'amico polacco Hyerosky, grande conoscitore di testi alchemici. Le opere di Pantheus sincretizzano per la prima volta, in modo organico, Kabbalah e Alchimia.

Nel 1585 il nobile veneziano Francesco Malipiero viene condannato a morte per magia, stregoneria e alchimia. Nello stesso periodo, un alchimista al servizio di Enrico I di Buglione (1556-1653) ottiene dallo stesso, dopo avergli trasmesso la ricetta per fare l'oro, un finanziamento per recarsi al congresso generale degli alchimisti a Venezia.

Bibliografia
J. Van Lennep, Alchimie, Paris, Dervy-Livres
A. Waldstein, Lumieres d'Alchimie, Paris, 1973
Francois Secret, Les Kabbalistes Chretiens de la Renaissance, Paris, 1964
G. De Castro, Fratellanze segrete, Messaggerie Pontremolesi, Milano, 1990

domenica 1 giugno 2008

Massoneria e Templari a Venezia



Fonti conoscitive comuni, derivate dal mondo romano, legano Corporazioni Murarie e Templari, entrambi costruttori di monasteri, chiese, fortezze, strade.
Bernardo di Clairvaux redige i 62 capitoli della Regola Templare dopo il concilio di Troyes (1128): il veneziano Giovanni Michiel figura quale scrivano estensore della Regola e come successivo affiliato all'Ordine. Probabile identificazione dello stesso col figlio del Doge Vitale, vessillifero della Serenissima della seconda Crociata (1147-49).

La presenza Templare a Venezia è attestata sin dal 1187: dal lascito di un terreno denominato Fossa Putrida, per l'edificazione di una Chiesa dell'Ordine da parte del vescovo di Ravenna. E dall'edificazione di S. Maria in Capite Brogli, nell'area detta dell'Ascensione a S. Moisé (prima sede del Priorato) e dell'ospizio di S. Giovanni Battista del Tempio alla Bragora, detto S. Giovanni dei Furlani (seconda sede) dall'omonima calle adiacente. Documenti del 1247 e 1303.

Guerra commerciale tra Veneziani e Genovesi in Acri (Tolemaide) nel 1256. Tra gli alleati dei Veneziani, i Cavalieri Teutonici, ed i Templari: ai primi la Serenissima dona un terreno per l'edificazione del monastero della SS. Trinità, ai secondi una forte somma per l'ampliamento e il miglioramento del già esistente Priorato.

Probabile presenza Templare alla Giudecca, presso la Chiesa e l'Ospitale per pellegrini di S. Biagio. Consacrazione della stessa nel 1188 attestata da lapide con tau Templare all'inizio del testo. Rinvenimento di croce bizantina nel cimitero della stessa Chiesa, a forma di tau. Il precedente nome dell'isola (Spina Longa), San Biagio come patrono, e la presenza di corsi d'acqua di facile navigazione, fanno pensare ad una sede templare tipica. Il nome Giudecca è forse derivato dal termine Zudegà (aggiudicato), dopo lo scioglimento dell'Ordine (1312).

Nel XIV secolo frà Sebastiano Michiel, Gran Priore dell'Ordine Gerosolimitano, assegnatario di gran parte delle commende Templari, rivendica autonomia dallo Stato ed obbedienza solo al Papa ed al suo Gran Maestro. Bernardo Giustinian, Gran Maestro dell'Ordine dei Malta, critica il processo ai Templari ed esprime fede nella resurrezione dello stesso.

Simboli e croci Templari residuano a Venezia, in Campo della Carne ed in Campo e nella Chiesa della Maddalena.

Autori della metà del XVIII secolo sostengono eredità e continuità dell'ordine Templare sotto le bandiere della Massoneria. Essa coprirebbe un Ordine di Superiori Incogniti per la restaurazione dell'Ordine. L'esoterismo Templare sarebbe stato acquisito dagli arabi (Assassini) e dalla Chiesa esoterica cristiana di San Giovanni Battista, precursore della Vera Luce: la festività del Santo coincide con il solstizio d'estate, al 24 giugno.
La devozione dei Templari a San Giovanni spiegherebbe la devozione tributata, anche a Venezia, alla testa del Santo, custodita post mortem dai discepoli e da essa trasmessa ai Templari: ricordiamo l'ipotesi di identificazione della stessa col cosiddetto Baphomet.

sabato 31 maggio 2008

La Scuola dei Tajapiera



Quella dei Tajapiera fu tra le più antiche Scuole d'arte veneziane. La Mariegola, cioè l'atto costitutivo, risale al 1307.
La Scuola, riunitasi sotto la protezione dei Quattro Santi Coronati, fu ospitata inizialmente presso l'ospedale di San Giovanni Evangelista, dove, in una stanza al pian terreno, messa a disposizione dal Priore, avvenivano le adunanze del Capitolo, cioè del Consiglio dell'associazione, presiedute dal Gastaldo.

Come le altre Scuole Minori, anche quella dei Tajapiera, aveva compiti di mutua assistenza e di controllo sulla qualità del lavoro.
I tajapiera iscritti all'arte erano in varie maniere tutelati. Pare, ad esempio, che quando uno dei Bon morì cadendo dall'impalcatura a S. Giovanni e Paolo, la vedova il giorno dopo già ricevesse la pensione per allevare il figlio e per poterlo poi inserire nella bottega dei Dalle Masegne.

L'arte si divideva in quattro gradi: garzoni, lavoranti, maestri, padroni di officina; questi ultimi erano detti anche paroni de corte, perché le pietre e i lavori più grossi si facevano nei cortili, all'aria aperta.
La prova per diventare maestri consisteva nello scolpire una base attica di colonna, che, una volta disegnata ed eseguita, direttamente senza sagoma, veniva misurata con un modulo di rame.
Nel 1515 la Confraternita si trasferì presso la Chiesa di Sant'Apollinare (Sant'Aponal), dove, grazie all'interessamento di Pietro Lombardo, acquistò un fondo dalla parte del campanile per costruirvi la propria sede: tale costruzione, in calle del campanile, presenta ancora oggi nella parte alta della facciata un bassorilievo con i Quattro Santi Coronati e la scritta MDCLII SCOLA DI TAGIAPIERA.

Di notte per Sant'Aponal si passava solo se si era tagiapiera e scultori e c'era un servizio di ronda per la sorveglianza. Soltanto nel 1723, o nel 1727 secondo il Sagredo, gli scultori si divisero dagli scalpellini.

La sede della Scuola a Sant'Aponal era abbellita da vari dipinti, alcuni dei quali ora conservati presso le Gallerie dell'Accademia: la tavola, che si trovava sull'altare, con i Santi Coronati, di Vincenzo Catena, ed il Polittico di Sant'Ambrogio, di Bartolomeo Vivarini. Vi era inoltre un altare marmoreo con scolpiti, ai due lati, gli strumenti del mestiere.
L'altare si trova ora in custodia presso la Chiesa di San Silvestro nell'ambiente, al primo piano, già sede della Scuola dei Mercanti da vin.

[Silvia Gramigna]

venerdì 30 maggio 2008

Giordano Bruno. Fede, filosofia ed eresia.



Da lui presero poi esempio, soprattutto in Germania e in Inghilterra, vari circoli di giordanisti e taluni cenacoli, più o meno segreti, che dovevano contribuire, in misura determinante, alla formazione del sistema simbolico della Massoneria moderna, comprendente innanzitutto due filoni di cui Giordano Bruno era stato maestro.
Il primo era l'arte della memoria, non già intesa come pura e semplice mnemotecnica, bensì quale branca sapienziale che si appoggia al gioco di analogia delle immagini, affinché l'uomo possa risalire alle idee primordiali, agli "archetipi".
Il secondo filone era la reinterpretazione dell'astrologia, non più chiamata a farsi creatrice di oroscopi, ma rivolta piuttosto a ospitare, nelle sue figurazioni, i molteplici segni de "le virtude e potenze dell'anima". Compiti immani e veramente "magici", nel senso più completo della parola, e che buona parte della Libera Muratoria si affretterà a dimenticare o per un più appagante e generico umanitarismo o scadendo nella più trita pratica occultistica. Ma chiediamoci: come mai, e perché, Giordano Bruno giunse alle formulazioni che dovevano condurlo sul rogo a Campo de' Fiori, a Roma, il 17 febbraio 1600, dopo otto anni di durissima prigionia nelle carceri della Santa Inquisizione? Ricordiamo alcune tappe della sua vita.
Nato a Nola, nel 1548, da famiglia contadina o piccolo-borghese, entrato nell'Ordine Domenicano a soli quattordici anni, consacrato sacerdote nel 1572, addottorato in teologia tre anni più tardi, Giordano Bruno dovette fuggire da Napoli, dove aveva studiato, perché, nel 1576, fu intentato contro di lui un primo processo per eresia, a causa di talune conclusioni a cui era pervenuto con un accanito lavoro di esegesi biblica.
Egli sosteneva, tra l'altro, che Dio come Mente era trascendente la Natura, ma come Intelletto ne era il cuore e la matrice e, in quanto Spirito, si identificava con l'Anima Universale. Concetti piuttosto difficili da accettarsi da parte delle autorità cattoliche dell'epoca, tanto più che il loro autore si appoggiava a essi per avanzare riserve sul culto della Vergine Maria e sul valore religioso dell'Eucarestia, così come veniva amministrata.
Ingiustamente accusato di complicità in un assassinio, Giordano Bruno, deposto l'abito ecclesiastico, dovette fuggire anche da Roma, iniziando così il lungo peregrinare di tutta la sua esistenza, dapprima nell'Italia settentrionale e poi in tutta Europa, ora accolto con tutti gli onori, ora contestato tumultuosamente, come gli accadde a Parigi, dove gruppi di studenti esaltati gli negarono ogni possibilità d'insegnamento, poiché si contrapponeva in tutto e per tutto alla filosofia di Aristotele (384-322 a.C.) e dei suoi seguaci, allora di gran moda. Il fatto non deve sorprendere.
Il pensiero di Giordano Bruno, guardato con critica profana, era ed è un curioso miscuglio di assiomi "progressisti" e "reazionari": egli appoggiava la concezione copernicana del nostro sistema planetario, giungendo a concepire l'universo come un'unità cosmica, infinita per estensione e per il numero di stelle e di pianeti che lo compongono, ma auspicava, altresì, che si rivivificasse il mondo degli dèi egizi, in quanto riteneva si trattasse della prima e più pura formulazione della religione dell'intelletto.
Analogamente, non v'era dubbio, per Bruno, che solamente una fosse la sostanza-base dell'Universo, ma il suo atomismo non era materialistico: la materia era anch'essa manifestazione della vita e doveva, e poteva, suscitare un'esaltazione lirica.
Non stupirà, dunque, che, per il filosofo di Nola, quattro fossero le scienze sacre per eccellenza: l'Amore, l'Arte, la Magia e la "Mathesis divina", ossia la speculazione o calcolo astrale, l'Astrologia, insomma, nella sua più alta accezione. Quattro discipline che potevano condurre all' "Atrium Apollonis", all' "Atrium Minervae o all' "Atrium Veneris", ciascuno dei quali conduceva, a sua volta, a una combinazione ternaria, ora definita come "Mens", "Intellectus" e "Amor", ora, mitologicamente, rappresentata dal triangolo greco-egizio di Bacco, Diana e Hermes Trismegisto.
Notevole l'attività letteraria- filosofica: già nel 1582, a Parigi, pubblicava il "De umbris idearum"; nel 1584, a Londra, il "De l'infinito universo et mondi", "De la causa principio et uno", "Cena de le ceneri", "Spaccio de la bestia trionfante" e, nel 1585, "Degli eroici furori". A Francoforte, tra il 1590 e il 1591, pubblicò i poemetti latini "De triplici minimo et mensura", "De monade numero et figura", "De immenso et infigurabili et innumerabilibus". Poi gli ultimi, terribili anni che lo portarono alla fine, come già sopra in parte anticipato.
Chiamato a Venezia (nel 1591) dal nobile Giovanni Mocenigo, che voleva apprendere l'arte della memoria, fu denunciato dal suo discepolo al tribunale dell'Inquisizione come eretico, per cui venne arrestato e imprigionato (1592).
Durante il processo, Giordano Bruno si dichiarò disposto a fare ammenda; però la Repubblica di Venezia lo consegnò all'Inquisizione di Roma, dove venne sottoposto a nuovo processo.
Dopo otto anni di prigionia, il più grande e audace pensatore del Rinascimento, che non volle abiurare la propria filosofia, ma non tenne neanche un contegno chiaro e netto, venne condannato a morte da papa Clemente VIII (1535-1605; pontefice dal 1592). Il 17 febbraio 1600, in Campo de' Fiori, venne arso sul rogo.

[Mario Leocata in iltempo.it]

Giacomo Casanova



Nacque a Venezia il 2 aprile 1725, quasi certamente frutto della relazione extraconiugale della madre, un’attrice, con il nobile Michele Grimani. Giacomo Casanova fu avviato alla carriera ecclesiastica e nel 1743 prese gli ordini minori ma fu poi cacciato dal seminario; si laureò in Legge e iniziò una vita girovaga, toccando mete in tutta Europa, vivendo di espedienti e cambiando spesso nome (Conte di Farussi, Cavaliere di Seingault, Antonio Pratolini) per sottrarsi alle conseguenza dei suoi atti, molto spesso al limite della legalità.

Fu cabalista, informatore dell’Inquisizione, mago e guaritore, giocatore professionista e abile baro, diplomatico, uomo di teatro e di corte presso Federico il Grande e Caterina II di Russia; seppe, nelle alterne fortune della sua vita, adeguarsi a vivere nel lusso e nell’indigenza, con ladri imbroglioni e prostitute, ma anche con aristocratici e uomini di corte e di cultura.

Fu arcade col nome di Eupolemo Pantaxeno, aderì alla Massoneria; a Venezia fu accusato di ateismo e libertinismo, motivi per cui fu arrestato e senza processo rinchiuso nei Piombi, da cui riuscì a evadere in modo rocambolesco.

Nel 1760 fu a Zurigo dove si monacò ma poi ebbe un ripensamento.

Negli anni successivi visitò Voltaire in Svizzera; venne espulso dalla Polonia a seguito del duello con la pistola contro il generale Braniski, evento che aumentò l’internazionalità della sua fama al negativo.

Per chiedere la grazia di tornare a Venezia scrisse una confutazione della Storia del governo di Venezia di Amelot de la Houssaye e nel 1774 ottenne di tornare nella sua città, ma ne fu poi nuovamente espulso per la sua condotta immorale.

In età ormai avanzata trovò impiego in Boemia presso il castello di Dux come bibliotecario del conte di Waldestein; qui negli ultimi 7 anni della sua vita scrisse l’Histoire de ma vie (Storia della mia vita).

L’opera fu pubblicata in edizione ridotta nel 1825 in Germania; soltanto nel 1965 è stata tradotta in italiano, dopo 3 anni dalla pubblicazione dell’edizione critica del testo e quattrocento edizioni in venti lingue.

Il testo esalta la figura di Casanova come uomo spregiudicato privo dei consueti schemi morali, emblema dell’edonismo erotico e convalida l’immagine di Casanova come precursore del fenomeno rivoluzionario ottocentesco.

Oltre all’autobiografia Casanova scrisse versi, tradusse in ottave una parte dell’Iliade; in prosa ha scritto anche l’Icosameron (romanzo utopico, 1788) e l’Histoire del ma fuite (Storia della mia fuga, 1788) che racconta l’evasione dai Piombi di Venezia.

Morì in Boemia il 4 giugno del 1798.

Così Giacomo Casanova sui misteri della Massoneria:

« Il mistero della massoneria, di fatto, è per sua natura inviolabile. Il massone lo conosce solo per intuizione, non per averlo appreso, in quanto lo scopre a forza di frequentare la loggia, di osservare, di ragionare e dedurre. Quando lo ha appreso, si guarda bene dal far parte della sua scoperta a chicchessia, fosse pure il suo miglior amico massone, perché se costui non è stato capace di penetrare da solo il segreto, non sarà nemmeno capace di profittarne se lo apprenderà da altri. Il segreto rimarrà dunque sempre tale. Ciò che avviene nella loggia deve rimaner segreto, ma chi è così indiscreto e poco scrupoloso da rivelarlo non rivela l'essenziale. Del resto, come potrebbe farlo se non lo conosce? Se poi lo conoscesse, non lo rivelerebbe. »
(Storia della mia vita)

giovedì 29 maggio 2008

Hugo Pratt, o dell'iniziato ironico



Hugo Pratt, il creatore di Corto Maltese, non appartiene solo al novero già ristretto dei disegnatori a fumetti creativi e capaci di elevare il proprio segno grafico e la propria vena narrativa a vertici estetici impensabili per la gran massa dei mestieranti. Pratt incarna invece l’ideale dell’artista, cioè di quell’artigiano artista tanto rispettato e quasi celebrato dagli Enciclopedisti francesi. I Diderot e i D’Alembert, infatti, ammiravano profondamente quegli artigiani, figli di una cultura che coltivava scienza e arte con il medesimo interesse, che univano alle proprie capacità manuali e tecniche il guizzo, l’intuizione metafisica propri dell’arte autentica.

Questo ideale legame con l’artista del Settecento, figura assai legata alle tradizioni iniziatiche del Compagnonaggio e della Massoneria, si realizza compiutamente in Hugo Pratt grazie a un percorso di ricerca che all’arte associa una propria peculiare visione dell’esoterismo: visione strettamente intrecciata alla sua poetica -anzi, perdendo di vista la quale la sua poetica diviene solo parzialmente intelligibile.

Corto Maltese, il personaggio più noto e più importante di Hugo Pratt, è un cercatore, un uomo in perenne inseguimento di un miraggio di ricchezza, ma sulle tracce di leggende antiche e pergamene indecifrabili: se la ricchezza materiale di Corto solo di rado viene incrementata dal rinvenimento degli oggetti mitici ricercati, egli nondimeno mai perde la propria imperturbabilità, in generale pago, a quanto sembra, degli straordinari incontri e delle straordinarie avventure vissute sulla superficie di tutte le terre conosciute. Non a caso Pratt protesta vigorosamente, in un’intervista con Dominique Pettifaux, all’osservazione che i tesori cercati da Corto Maltese sono pur sempre tesori materiali: diverso è in effetti cercare uno smeraldo qualsiasi e diverso cercare la «clavicola di Salomone».

Corto Maltese si trova ad avere a che fare anche con la Massoneria. In Favola di Venezia Corto irrompe, non proprio casualmente, in una loggia massonica in piena riunione e suscita con le proprie parole il dubbio del Maestro Venerabile che egli stesso possa essere a sua volta un massone, poiché gli si rivolge con alcune parole contenute nel Rituale. Ma alle parole «Siete anche voi un libero muratore?» Corto risponde spiritosamente che si accontenterebbe di essere un libero marinaio.
In queste semplici e ironiche parole c’è molto del Pratt iniziato: egli fece il proprio ingresso in Massoneria poco prima della stesura di Favola di Venezia -opera per cui chiese e ottenne la consulenza di altri massoni; tanto che la Prefazione alla prima edizione del fumetto fu scritta dal Maestro Venerabile della Loggia veneziana alla quale Pratt fu iniziato e alla quale rimase a lungo affiliato (Pratt è stato iniziato il 19 novembre 1976 nella loggia Hermes all’Oriente di Venezia della Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi).
Pratt condivide in gran parte gli ideali esoterici massonici, anche se formula (nel fumetto in questione come in una successiva intervista) un’interessante critica all’Istituzione: il massone manca d’ironia, ed è quindi un personaggio per definizione triste. Nella visione di Pratt, lo «scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed edificare templi alla virtù» (questa la formula esplicitamente ricordata nella Favola) è un’attività che può essere incessantemente portata avanti con il sorriso sulle labbra, senza divenire per questo meno impegnata.
L’ironia, peraltro, diviene anche uno strumento poetico per introdurre nel racconto allusioni al mondo esoterico che, se altrimenti presentate, potrebbero appesantire le storie o comunque renderle troppo pretenziose.

Spesso nelle storie di Corto Maltese compaiono riferimenti a tale mondo, introdotti in genere all’apparire di nomi di personaggi clonati da nomi assai noti nella storia dello spirito umano. Così, per esempio, nell’Angelo della finestra d’oriente, il saggio Melchisedec ha ricevuto notizie di Corto Maltese da un sudamericano di nome Steiner e parla del diario di un gesuita di nome Salinas de Loyola. Altrove prendono direttamente parte all’azione personaggi delle religioni e delle leggende più diverse: al Sogno di un mattino di mezzo inverno (il cui nome è già una citazione ironica), partecipano Oberon (che però da shakespeariano Re delle fate si tramuta in fata), Puck (che invece rimane in qualche modo l’esecutore degli ordini di Oberon), Merlino e, nei panni di una spia tedesca, la reincarnazione di Rowena, mentre si allude a Lorelei in ...e di altri Romei e di altre Giuliette il motore dell’azione è rappresentato da uno stregone (africano) di nome Shamaël.

Si direbbe che Hugo Pratt, attraverso Corto, abbia fatto proprio il detto terenziano «homo sum, nihil humani a me alieno puto». Ogni cultura esprime la propria tradizione con pari dignità. La Massoneria e la Macumba, ha affermato Hugo Pratt, del resto, per quanto nascano da tradizioni in apparenza assolutamente inconciliabili, sorgono dalla comune esigenza dell’uomo di avvicinarsi al mondo spirituale. La vocazione esoterica di Pratt (che attraverso il fumetto ha comunque scelto sicuramente uno dei mezzi di espressione più tipicamente caratterizzati dall’understandment) è profondamente sentita e alimentata da una forte tradizione familiare (il nonno e il padre del creatore di Corto Maltese erano infatti ambedue massoni). È una vocazione che lo ha condotto, quasi seguendo in una certa misura l’esempio del suo personaggio preferito, a cercare tracce lasciate dai grandi iniziati in giro per il mondo (per esempio visitando le loro tombe); sempre, insomma, nella realizzazione di quell’ideale di ricerca che -come Lessing insegnava- è preferibile allo stesso possesso della Verità.

Simbologia e attività massoniche nella Serenissima Repubblica di Venezia


Il palazzo dei Dogi in Venezia è senza dubbio alcuno una struttura magnifica. La sua costruzione risale al nono secolo, prosegue e si evolve assieme alla Serenissima Repubblica, sino ad assumere la sua forma attuale attorno alla metà del ’400. Lo stretto legame fra la Basilica di San Marco e il Palazzo, entrambi edifici dogali, ha visto nella prima la metafora del Santo Sepolcro e nel secondo quella del Tempio di Salomone. Ma i veneziani, certamente desiderosi di affermare il primato della propria città in quanto nuova Gerusalemme, nel costruire e completare la sede del governo della città-stato hanno pensato, e non poteva essere altrimenti, a un palazzo: la reggia di Salomone.

Le 36 colonne che sostengono la struttura fanno pensare ai tronchi di una foresta le cui chiome sono rappresentate dai capitelli sui quali spicca una rigogliosa vegetazione. L’albero, nel mondo cristiano, rappresenta il desiderio del cielo, la potenza e la grandezza regale. Non è da escludere che l’immagine del Palazzo abbia preso spunto da quella della reggia edificata da Salomone: "Costruì il palazzo detto Foresta del Libano, lungo cento cubiti, largo cinquanta e alto trenta, su tre ordini di colonne di cedro e con capitelli di cedro sulle colonne" (1 Re 7, 2).

Se ci si avvicina al palazzo, si scopre che tra le foglie dei capitelli spuntano creature di ogni sorta. Fra il porticato e il loggiato si possono contare 582 figurazioni! Personaggi biblici e mitologici, pianeti e segni zodiacali, sapienti e imperatori, dame e cavalieri, santi e artigiani, animali e mostri, vizi e virtù si susseguono in quello che a prima vista può sembrare favoloso, ma anche caotico e indecifrabile, mentre altro non è se non la rappresentazione dell’universo e della storia dell’umanità dalla creazione di Adamo in poi. La progettazione e la realizzazione dei capitelli del porticato e del loggiato e di tutte le sculture esterne avvenne tra il 1340 e il 1355. In questo periodo si ha traccia della presenza di due "architetti", tali Pietro Baseggio e Henricus "tajapiera" che in lingua veneta significa letteralmente tagliapietre, che hanno la qualifica di "protomagister" e che sovrintendono al lavoro di innumerevoli carpentieri, muratori e scalpellini veneziani, toscani e lombardi come i "magistri comacini".

Il primo capitello che ci interessa dal punto di vista massonico è il quinto a partire dal Ponte della Paglia, dal quale viaggiatori di tutto il mondo da secoli ammirano il famoso Ponte dei Sospiri. Si tratta del capitello detto "degli imperatori", che sono: Tito, Traiano, Priamo, Nabucodonosor, Alessandro il Grande, Dario, Giulio Cesare e Ottaviano Augusto. È interessante notare che Nabucodonosor fu responsabile della distruzione del primo tempio di Gerusalemme nel 587 a.C., mentre Tito distrusse l’ultimo nel 70 d.C. Sul nono capitello troviamo descritte le Virtù: Fede, Forza, Temperanza, Umiltà, Carità, Giustizia, Prudenza e Speranza. La Giustizia è rappresentata da re Salomone sul suo trono. Il diciassettesimo capitello vede elencati uomini famosi per saggezza, arte e scienza. Essi sono: Salomone, Prisciano, Aristotele, Cicerone, Pitagora, Euclide, Tubalcain e Tolomeo. Elenca anche le arti e scienze liberali del Trivium e del Quadrivium. Le iscrizioni sull’abaco del capitello ci aiutano a capire. Dopo SALOMON SAPIENS, il sapiente Salomone, troviamo PRISCIANUS GRAMMATICUS (la grammatica), ARISTOTELES DIALECTICUS (la dialettica) e quindi Marco Tullio Cicerone, TULLIUS RHETOR (la retorica). Subito dopo vediamo Pitagora (che mi fa pensare al "Peter Gower" e ai "Venetians" del Leland M. S.) che ovviamente simboleggia la matematica ed è naturalmente seguito da Euclide (EUCLIDES GEOMETRICUS), raffigurato con in mano un compasso. Segue Tubalcain che è descritto come TUBALCAIN MUSICUS in quanto probabilmente confuso con Jubal, il biblico "padre dei musicisti di cetra e di salterio" (Genesi 4, 21). Chiude il capitello TOLOMEUS ASTROLOGUS, il famoso astronomo vissuto nel secondo secolo dopo Cristo. Tubalcain, che secondo la Bibbia (Genesi 4, 22) fu il primo uomo a lavorare il ferro e il bronzo, secondo la tradizione massonica è stato il primo artista a lavorare i metalli: come mai qui è diventato un "musicus"? Sarebbe stato più logico trovarlo menzionato sull’abaco del ventunesimo capitello, quello dei mestieri, lì dove è scritto FABER SUM (sono il fabbro). Il diciottesimo capitello, che secondo John Ruskin è il più interessante e il più bello, è quello che rappresenta i pianeti, il Sole e la Luna, nelle sedi dello Zodiaco. Il diciannovesimo capitello è quello dei santi scultori, con il quale i "tajapiera", ossia i muratori e gli scalpellini veneziani, onorano i loro santi protettori e in particolare i "Quattuor Coronati": san Claudius, san Chastorius, san Nichostratus e san Simphorianus. Sul capitello è rappresentato anche san Simplicius che non è coronato. Il ventunesimo capitello, quello dei mestieri, rappresenta sul primo lato, quello rivolto verso la piazzetta, il LAPIDICA, come si legge sull’abaco, il lavoratore del marmo, con martello e scalpello. Il ventiduesimo capitello rappresenta l’Astrologia e l’influenza degli astri sulle sette età dell’uomo (infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza, età adulta, età matura e vecchiaia), infine, sull’ottavo lato del capitello, l’ineluttabile conclusione: il vecchio è steso sul letto di morte, le mani incrociate sul petto, il capo posato su di un cuscino. Sull’abaco è incisa l’iscrizione: ULTIMA AETAS EST MORS POENA PECCATI (l’estrema età è la morte, conseguenza del peccato).

La Repubblica di Venezia, la cui data di nascita potrebbe essere fissata nell’anno 726, quando fu eletto il primo dei suoi 117 dogi, cessò di esistere il 12 maggio 1797. Per quasi 1100 anni essa manifestò sempre un vero culto della giustizia. Leggi severissime difendevano lo Stato dai traditori e i cittadini dal sopruso, dal delitto e dalla truffa. Salomone, il re-giudice ispirato da Dio, simboleggia meglio di ogni altro questo alto e nobile concetto della giustizia. Sopra la colonna numero 36, all’angolo nord-ovest del Palazzo, lo troviamo nuovamente con il gruppo scultoreo intitolato "Giudizio di Salomone", dove le due madri si contendono il bimbo che il re saggio, mettendo in gioco l’amore materno, ordina di tagliare a metà.

A partire dall’anno 1000 si trovano i primi indizi della presenza anche a Venezia di "congregationes o scholae", consorterie o confraternite religiose e di mestiere. Attorno alla metà del tredicesimo secolo le corporazioni di mestiere sono legalmente costituite e riconosciute dal pubblico potere, ad esempio ricevono gli statuti dal magistrato competente. Questi statuti si chiamavano in origine "capitularia, statuta o ordinamenta". I capitoli o assemblee generali si riunivano nella sala della scuola, chiamata "albergo", avevano un presidente chiamato "gastaldo", un vicepresidente chiamato "vicario" e parecchi "compagni" che componevano il consiglio. C’erano anche un tesoriere, chiamato "cassiere", e un segretario, chiamato "scrivano". Nessun confratello poteva rifiutare l’ufficio cui era stato eletto. Questo dovere è menzionato per la prima volta nello statuto degli speziali dell’aprile del 1258. Sin dal 1271 le consorterie veneziane stabilirono di destinare una parte delle loro vendite a sollievo dei poveri e degli infermi. Più tardi pensarono alla pensione delle vedove e alla tutela degli orfani e istituirono particolari ospedali per i compagni malati. Accanto alle consorterie delle arti e dei mestieri prosperavano anche le scuole di devozione o confraternite religiose, che non adunavano più soltanto i fratelli della stessa arte, ma erano aperte a tutti. Esse erano completamente autonome per quanto riguardava la piena libertà di eleggere i capi e di redigere i propri statuti, salvo l’obbligo di non violare gli ordinamenti dello Stato e di non operare contro l’onore del Doge. Alcune di queste scuole, come quella di San Giovanni Evangelista, avevano l’abitudine di iscrivere, come fratelli, illustri personaggi anche stranieri, compreso anche qualche inglese, come un certo barone Odoardo Vindefor (sic) morto a 41 anni nel 1574 e sepolto nel complesso dei Santi Giovanni e Paolo.

A questo punto appaiono molti e chiari i punti di contatto, anche sconcertanti, tra le fraternite veneziane e le prime logge dei Liberi Muratori, anche se manca la caratteristica peculiare del segreto e non abbiamo traccia alcuna di rituali. Se le fraternite veneziane avevano dei segreti da tutelare sembra ci siano riuscite benissimo. Per quanto riguarda i rituali appare logico che essi non fossero scritti, ma imparati a memoria e tramandati oralmente nella migliore tradizione massonica. È presumibile che con il decreto del Senato che alla fine del 1500 proibì ai patrizi l’ingresso nelle scuole e mise molti divieti e restrizioni ai rapporti degli stessi con gli stranieri siano state coperte molte tracce. La Massoneria moderna, quella speculativa, quella inglese, quella di Anderson e di Desaguliers, arriva in Italia nel 1729, quando un inglese, Charles Sackeville, duca del Middlesex, fonda una loggia a Firenze, assieme ad altri inglesi ivi residenti, come ad esempio sir Horace Mann, e al primo "martire" della Massoneria italiana, il poeta Tommaso Crudeli. Durante quello stesso anno soggiornò a lungo in Italia e si fermò a Venezia e Firenze Thomas Howard, ottavo duca di Norfolk e prominente Massone. Della loggia di Firenze facevano parte anche Antonio Cocchi, medico personale di Theophilus Hastings, conte di Huntingdon, e l’abate Antonio Niccolini, mecenate coltissimo, famoso per la ricchezza della sua biblioteca, amico di Montesquieu, del principe di Galles e di Walpole. Nel contempo il padovano Antonio Conti, che in Inghilterra aveva conosciuto sia Newton che Desaguliers, nonché il duca di Montague e il cavalier Ramsey, faceva visitare Venezia a Montesquieu, che a quel tempo non era ancora iscritto alla Massoneria, ma che ad essa non era sicuramente indifferente. Altri personaggi veneti che avevano relazioni con Londra, la Royal Society e i circoli massonici francesi e inglesi erano Francesco Algarotti e Scipione Maffei, che secondo Montesquieu era il fondatore di una loggia di Verona. Si può quindi ipotizzare che già dal 1730 esistesse una Massoneria veneta.

La decadenza della Serenissima Repubblica di Venezia inizia con la scoperta dell’America, avvenuta nel 1492, da parte, ironia della sorte, proprio di un cittadino di quella Genova che per secoli era stata nemica e in guerra contro Venezia: Cristoforo Colombo. A dispetto della decadenza politica, militare e commerciale, Venezia non era ancora disposta a subire più di tanto le interferenze straniere o in ogni modo esterne e non gradite. Ecco perché le bolle pontificie "In eminenti apostolatus specula" del 1738 e "Providas romanorum pontificum" rimasero, almeno nel territorio della Repubblica, lettera morta. Nel 1754 un medico francese di nome Bresson venne denunciato dal parroco e arrestato perché appartenente alla setta dei Franchi Muratori. Il fatto provocò l’intervento del Senato che liberò il francese e arrestò il prete, riaffermando, all’interno del territorio della Repubblica, la sua assoluta potestà legislativa e portando con questo suo atto le relazioni diplomatiche con Roma al limite della rottura. Nel 1727, in un teatro di Verona, venne rappresentata una commedia dal titolo "I Franchi Muratori". Nel 1746 il cavalier Alticozzi pubblicò la sua "Relazione della compagnia de’ Liberi Muratori". Non molto successo ebbe in teatro la commedia di Francesco Griselini "I Liberi Muratori", mentre grande successo ebbe durante il carnevale del 1753 la commedia "Le donne curiose" di Carlo Goldoni.

In quello stesso anno il più famoso di tutti i veneziani, Giacomo Casanova, torna a Venezia. Il 21 agosto 1755 viene arrestato, non perché Massone, ma per via della sua condotta libertina e spregiudicata. Negli anni seguenti si diffondono anche nel Veneto sette come quella degli Eletti Coen e sistemi come quelli della Stretta Osservanza e degli Illuminati di Baviera, quasi in contrapposizione alla Massoneria inglese, filantropica e al di sopra di ogni contrasto politico o religioso. A partire dal 1772 l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle logge si modifica in seguito alla svolta conservatrice impressa alla politica veneziana da Andrea Tron. Nello stesso anno la Gran Loggia inglese dei Moderns concede la patente numero 438 ad una loggia di Venezia denominata "L’Union" e la patente numero 439 ad una loggia di Verona. Queste due logge inglesi hanno probabilmente cessato di operare nel 1777-1778. Nella Serenissima abbiamo quattro nuove logge di cui si conoscono anche i nomi: "L’Amore del prossimo" a Padova, "I veri amici" a Vicenza, "La vera luce" a Verona e "La fedeltà" a Venezia. La loggia "L’Union" numero 438 era stata fondata dal segretario del Senato, Pier Antonio Gratarol, e vedeva fra i numerosi Fratelli, che come nelle logge inglesi appartenevano alle più diverse estrazioni sociali, molti nobili, borghesi ed ebrei; contava fra i suoi membri anche un olandese e due o tre inglesi. Se confrontiamo gli elenchi degli iscritti a "L’Union" (1772) con quelli degli iscritti a "La fedeltà" (1785) possiamo notare la scomparsa di nomi stranieri ed ebrei e la preponderanza di aristocratici e funzionari dello Stato. Nel 1785 un governo sempre più preoccupato della sua sopravvivenza in un mondo che cominciava a cambiare troppo rapidamente, dove i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità sfuggivano di mano, uscivano dal salotto e diventavano dirompenti e rivoluzionari, ordinava la chiusura delle logge, cosa che avvenne, come tutto a Venezia, senza troppo rumore. Di lì a pochi anni, il 12 maggio 1797 la Serenissima Repubblica di Venezia si arrendeva, stanca, sfinita e imbelle, una pallida ombra di quello che era stata, a Napoleone Bonaparte. L’ultimo Doge, Lodovico Manin, si spogliò in fretta delle insegne ducali e, prima di lasciare il Palazzo Ducale, consegnò al suo fidato cameriere personale Bernardo Trevisani la cuffietta di tela bianca che i Dogi portavano sotto il corno, e con flemma tutta veneziana disse: «Tenete, questa non l’adopero più». Così si conclude la storia della Serenissima Repubblica di Venezia. Quella della Massoneria veneta, invece, prosegue fino ai giorni nostri con alterna fortuna, ma, almeno per il momento, non ci interessa, anche perché entra a far parte di una storia più vasta, quella della Massoneria italiana.

Bibliografia
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Targhetta R., La Massoneria veneta dal 1729 al 1785, Del Bianco Editore, Udine, 1988

[Alessandro Bonelli, da Hiram]

L'insegnamento iniziatico


Sembra che, in un senso abbastanza generale, non ci si renda conto esattamente di ciò che è, o di ciò che dovrebbe essere, l’insegnamento iniziatico, di ciò che lo caratterizza essenzialmente, differenziandolo profondamente dall’insegnamento profano. Molti, in simile materia, prendono le cose in un modo troppo superficiale, si fermano alle apparenze ed alle forme esteriori, e così non vedono, come particolarità degna nota, nulla più dell’uso del simbolismo, di cui non comprendono affatto la ragione d’essere, si può anche dire la necessità, e che, in queste condizioni, non possono sicuramente trovare che strano e per lo meno inutile.

A parte ciò, essi suppongono che la dottrina iniziatica, in fondo, non è quasi che una filosofia come le altre, un po’ differente forse per il suo metodo, ma in ogni caso niente di più, perché la loro mentalità è così fatta che sono incapaci di concepire altra cosa.
E quelli che acconsentiranno lo stesso a riconoscere all’insegnamento di una tale dottrina qualche valore da uno o da un altro punto di vista, e per motivi qualunque, che non hanno abitualmente nulla di iniziatico, non potranno mai arrivare anche essi che a farne tutt’al più una specie di prolungamento dell’insegnamento profano, di completamento dell’educazione ordinaria, ad uso di un’"elite" relativa. Ora, è forse ancor meglio negare intieramente il suo valore, il che equivale in fondo ad ignorarlo puramente e semplicemente, che trascinarlo così in basso e presentare, troppo spesso, in suo nome ed al suo posto, l’espressione di vedute particolari, più o meno coordinate, su ogni sorta di cose che, in realtà, non sono iniziatiche né in sé stesse, né per il modo con cui vengono trattate.
E, se questa maniera per lo meno difettosa di concepire l’insegnamento iniziatico non è dovuta, dopo tutto, che all’incomprensione della sua vera natura, ve ne è un’altra che lo è presso a poco altrettanto, benché in apparenza affatto contraria a quella. È quella che consiste nel volere ad ogni costo opporlo all’insegnamento profano, pur attribuendogli d’altra parte per oggetto una certa scienza speciale, più o meno vagamente definita, messa ogni momento in contraddizione ed in conflitto colle altre scienze, e sempre proclamata superiore ad esse senza che se ne sappia troppo il perché, quando essa non è né meno sistematica nella sua esposizione, né meno dogmatica nelle sue conclusioni. I partigiani di un insegnamento di questo genere, sedicente iniziatico, afferman bene, è vero, che esso è di tutt’altra natura dell’insegnamento ordinario, sia scientifico, filosofico, o religioso; ma non danno di questo alcuna prova e, disgraziatamente, non si fermano lì in fatto di affermazioni gratuite o ipotetiche. Ma vi è di più; raggruppandosi in scuole multiple e sotto denominazioni diverse, essi si contraddicono tra di loro non meno di quanto essi non contraddicano, spesso per partito preso, rappresentanti dei diversi rami dell’insegnamento profano, il che non impedisce a ciascuno di loro di pretendere ad essere creduto sulla parola e considerato come più o meno infallibile.

Ma, se l’insegnamento iniziatico non è il prolungamento dell’insegnamento profano, come lo vorrebbero gli uni, né la sua antitesi, come sostengono gli altri, se non è né un sistema filosofico, né una scienza specializzata, si può chiedere che cosa è; perché non basta avere detto che cosa non è, bisogna anche, se non darne una definizione propriamente detta, il che è forse impossibile, almeno tentare di fare comprendere in che cosa consiste la sua natura. E far comprendere la sua natura, almeno nella proporzione in cui ciò può essere fatto, è spiegare ad un tempo, e proprio per tale mezzo, perché non è possibile definirlo senza deformarlo, ed inoltre perché ci si è ingannati così generalmente, ed in qualche modo necessariamente, sul suo vero carattere. L’impiego costante del simbolismo nella trasmissione di questo insegnamento, di cui forma come la base, potrebbe per altro bastare a fare già intravederlo, per chiunque rifletta un poco, quando si ammetta, come è semplicemente logico di fare senza neppure spingersi fino al fondo delle cose, che un modo di espressione al tutto diverso dal linguaggio ordinario deve essere stato creato per esprimere, almeno alla sua origine, ed in quanto di origine si può parlare, delle idee parimenti diverse da quelle che esprime quest’ultimo, e delle concezioni che non si lasciano tradurre integralmente per mezzo di parole, per le quali occorre un linguaggio meno limitato, più universale, perché esse stesse appartengono ad un ordine più universale.

Ma se le concezioni iniziatiche sono cosa diversa dalle concezioni profane, si è che esse procedono innanzi tutto da un’altra mentalità che quella da cui queste procedono, dalle quali esse differiscono meno ancora per il loro obbietto che per il punto di vista sotto il quale esse guardano questo obbietto. Ora, se tale è la distinzione essenziale che esiste tra questi due ordini di concezioni, è facile ammettere che, da una parte, tutto quel che può essere considerato da un punto di vista profano può esserlo anche, ma allora in tutt’altro modo e con tutt’altra comprensione, dal punto di vista iniziatico, mentre che, d’altra parte, vi sono delle cose che sfuggono completamente al dominio profano e che son proprie del dominio iniziatico, poiché questo non è sottoposto alle medesime limitazioni di quello.

Che il simbolismo, che è come la forma sensibile di ogni insegnamento iniziatico, sia di fatti, in realtà, un linguaggio più universale dei linguaggi volgari, non è permesso di dubitarne un solo istante, quando solamente si consideri che ogni simbolo è suscettibile di interpretazioni multiple, per niente in contraddizione fra loro, ma al contrario completantesi reciprocamente, e tutte egualmente vere benché procedenti da punti di vista differenti; e, se la cosa sta così, dipende dall’essere il simbolo la rappresentazione sintetica e schematica di tutto un insieme di idee e di concezioni che ciascuno potrà affermare secondo le proprie attitudini mentali e nella misura in cui egli è preparato alla loro intelligenza. E così il simbolo, per chi perverrà a penetrarne la significazione profonda, potrà far concepire ben più di tutto quel che è possibile esprimere per mezzo delle parole; e questo mostra la necessità del simbolismo: ciò sta nell’essere il solo mezzo di trasmettere tutto quell’inesprimibile che costituisce il dominio proprio dell’iniziazione o piuttosto deporre in germe le concezioni di questo ordine nell’intelletto dell’iniziato, che dovrà in seguito farle passare dalla potenza all’atto, svilupparle ed elaborarle col suo lavoro personale, perché non si può fare nulla di più che prepararvelo tracciandogli, con delle formule appropriate, il piano che egli dovrà poi realizzare in sé stesso per pervenire al possesso effettivo dell’iniziazione che egli ha ricevuto dall’esterno solo simbolicamente.
Ma se l’iniziazione simbolica, che non è che la base od il sostegno dell’iniziazione vera ed effettiva, è la sola che possa essere data esteriormente, essa può per lo meno venir conservata e trasmessa anche da quelli che non ne comprendono né il senso né la portata. Basta che i simboli siano mantenuti intatti perché siano sempre suscettibili di risvegliare, in chi ne è capace, tutte le concezioni di cui raffigurano la sintesi. Ed è in questo che risiede il vero segreto iniziatico, che è di sua natura inviolabile e si difende per se stesso dalla curiosità dei profani, e di cui non è che una figurazione simbolica il segreto relativo di certi segni esteriori. Non vi è altro mistero che l’inesprimibile, che è evidentemente incomunicabile proprio per questo; ciascuno potrà più o meno penetrarlo secondo l’estensione del suo orizzonte intellettuale; ma quando pure lo abbia penetrato integralmente, non potrà comunicare ad altri che quello che ne avrà compreso egli stesso; tutt’al più potrà aiutare a pervenire a questa comprensione quelli soltanto che vi sono attualmente atti.

Così, il segreto iniziatico è qualche cosa che risiede ben al di là di tutti i rituali e di tutte le forme sensibili in uso per la trasmissione dell’iniziazione esteriore e simbolica, il che non impedisce che queste forme abbiano nonostante, soprattutto nei primi studi di preparazione iniziatica, la loro funzione necessaria ed il loro proprio valore, proveniente dal fatto che esse non fanno in somma che tradurre i simboli fondamentali in gesti, prendendo questa parola nel suo senso più esteso, e che, in questo modo, esse fanno in un certo senso vivere all’iniziato l’insegnamento che gli si presenta, ciò che è la maniera più adeguata e più generalmente applicabile di preparargliene l’assimilazione, poiché tutte le manifestazioni dell’individualità umana si traducono, nelle sue condizioni attuali di esistenza, in modi diversi dell’attività vitale. Ma si avrebbe torto di andare più lontano e di pretendere di far della vita, come molti vorrebbero, una specie di principio assoluto; l’espressione d’un idea in modo vitale non è dopo tutto che un simbolo come gli altri, così bene come lo è per esempio la sua traduzione in modo spaziale, che costituisce un simbolo geometrico od un ideogramma. E se ogni processo di iniziazione presenta nelle sue differenti fasi una corrispondenza, sia con la vita umana individuale, sia anche con l’insieme della vita terrestre, si è che la stessa evoluzione vitale, particolare o generale, può essere considerata come lo sviluppo di un piano analogo a quello che l’iniziato deve realizzare per realizzare sé stesso nella completa espansione di tutte le potenze del suo essere. Sono sempre e dovunque dei piani corrispondenti ad una medesima concezione sintetica, di maniera che essi sono identici in principio, e, benché tutti diversi ed indefinitamente variati nella loro realizzazione, procedono da un Archetipo ideale unico, piano universale tracciato da una Forza e Volontà cosmica che, senza d’altra parte pregiudicare in nulla sopra la sua natura, possiamo chiamare il Grande Architetto dell’Universo.

Ogni essere dunque, individuale o collettivo, tende, consciamente o no, a realizzare in sé stesso, con i mezzi appropriati alla sua particolare natura, il piano del Grande Architetto dell’Universo, ed a concorrere così secondo la funzione che gli appartiene nell’insieme cosmico, alla realizzazione totale di questo stesso piano, la quale insomma non è che l’universalizzazione della sua propria personale realizzazione. L’iniziazione vera comincia per un essere al punto preciso della sua evoluzione in cui esso prende effettivamente coscienza di questa finalità; e, quando esso ha preso coscienza di se stesso, l’iniziazione deve condurlo, secondo la sua via personale, a questa realizzazione integrale che si compie, non nello sviluppo isolato di certe facoltà speciali e più o meno straordinarie, ma nello sviluppo completo, armonico e gerarchico, di tutte le possibilità implicate virtualmente nell’essenza di quest’essere. E, poiché la fine è necessariamente la medesima per tutto ciò che ha medesimo principio, è nei mezzi impiegati per pervenirvi che risiede esclusivamente quel che fa il valore proprio d’un essere qualunque, considerato nei limiti della funzione speciale che è determinata per lui dalla sua natura individuale, o da certi elementi di essa; questo valore dell’essere è d’altra parte relativo e non esiste che in rapporto alla sua funzione, perché non vi è da stabilire alcun paragone di inferiorità o di superiorità tra funzioni differenti, che corrispondono ad altrettanti ordini particolari egualmente differenti benché tutti egualmente compresi nell’Ordine universale, di cui sono, tutti al medesimo titolo, degli elementi necessari.

Così, l’istruzione iniziatica, considerata nella sua universalità, deve comprendere, come altrettante applicazioni, in varietà indefinita, di uno stesso principio trascendente ed astratto, tutte le vie di realizzazione particolari, non soltanto ad ogni categoria di esseri, ma anche ad ogni essere individuale; e, così comprendendole tutte, essa le totalizza e le sintetizza nell’unità assoluta della Via universale. Se, dunque, i principi dell’iniziazione sono immutabili, la loro rappresentazione simbolica non pertanto può e deve variare in modo da adattarsi alle condizioni di cui la diversità fa sì che non vi possono essere matematicamente due cose identiche in tutto l’universo, perché fossero veramente identiche in tutto, o, in altri termini, se fossero in perfetta coincidenza in tutta l’estensione della loro comprensione, non sarebbero evidentemente due cose distinte, ma sibbene una sola e medesima cosa.

Si può dunque dire, in particolare, che è impossibile vi siano, per due individui diversi, due iniziazioni assolutamente simili, anche dal punto di vista esteriore e rituale, ed a fortiori dal punto di vista del lavoro interiore dell’iniziato. L’unità e l’immutabiltà del principio non esigono affatto l’unità e l’immobilità, d’altra parte irrealizzabili, delle forme esteriori, e questo consente, nell’applicazione pratica che deve esserne fatta all’espressione ed alla trasmissione dell’insegnamento iniziatico, di conciliare le due nozioni, così spesso ed a torto messe tra loro in opposizione, della tradizione e del progresso, ma non riconoscendo comunque a quest’ultimo che un carattere puramente relativo. Solo la traduzione esteriore dell’istruzione iniziatica e la sua assimilazione da parte di questa e di quella individualità sono suscettibili di modificazioni, e non questa istruzione considerata in se stessa; di fatti, nella misura in cui tale traduzione è possibile, essa deve forzatamente tener conto della relatività, mentre ciò che essa esprime ne è indipendente nell’universalità ideale della sua essenza, e non si può evidentemente far questione di progresso da un punto di vista che comprende tutte le possibilità nella simultaneità di una sintesi unica.

L’insegnamento iniziatico, esteriore e trasmissibile nelle forme, non è in realtà e non può essere che una preparazione dell’individuo a ricevere la vera istruzione iniziatica per effetto del suo lavoro personale. Si può così indicargli la via da seguire, il piano da tradurre in realtà, e disporlo ad acquistare l’attitudine mentale ed intellettuale necessaria alla intelligenza delle concezioni iniziatiche; si può anche assisterlo e guidarlo controllandone il lavoro in una maniera costante, ma è tutto, perché nessun altro, fosse pure un Maestro nella più completa accezione della parola, non può fare questo lavoro per lui. Quel che l’iniziato deve forzatamente acquistare da per se stesso, perché nessuno né alcuna cosa a lui esteriore può comunicarglielo, è precisamente quel che sfugge per la sua stessa natura ad ogni curiosità profana, vale a dire il possesso effettivo del segreto iniziatico propriamente detto. Ma, perché egli possa arrivare a realizzare questo possesso in tutta la sua estensione e con tutto quel che essa implica, è necessario che l’insegnamento che serve in qualche modo di base e di sostegno al suo lavoro personale si apra su delle possibilità illimitate, e gli permetta così di estendere indefinitamente le sue concezioni, invece di rinchiuderle nei limiti più o meno ristretti di una teoria sistematica o di una formula dogmatica qualunque.

Ora, stabilito questo, fin dove può andare questo insegnamento quando si estende al di là delle prime fasi di preparazione iniziatica con le forme esteriori che vi sono più specialmente collegate? In quali condizioni può esistere tale quale deve essere per compiere la funzione che gli è dovuta ed aiutare effettivamente nel loro lavoro quelli che vi partecipano, purché solamente essi siano capaci di raccogliere da per loro stessi i frutti? Come sono realizzate queste condizioni dalle diverse organizzazioni rivestite di carattere iniziatico? Infine, a che cosa corrispondono in una maniera precisa, nell’iniziazione reale, le gerarchie che tali organizzazioni comportano? Sono altrettante questioni che non è possibile trattare in poche parole, e che al contrario meriterebbero tutte di essere ampiamente sviluppate, senza d’altra parte che sia mai possibile, facendolo, di fornire altra cosa che un tema da riflettervi e da meditare, e senza avere la vana pretesa di dare fondo ad un argomento che si estende e che si approfondisce di più in più a misura che si procede nel suo studio, precisamente perché, a chi lo studia con le disposizioni di spirito richieste, esso apre degli orizzonti concettuali realmente illimitati.

Da Il risveglio della Tradizione occidentale (René Guénon)